Arte e architettura, patrimonio e identità. Appunti per una storia del restauro in Colombia (1920-1970)*

Arte y arquitectura, patrimonio e identidad. Apuntes para una historia de la restauración en Colombia (1920-1970)

Art and Architecture, Heritage and Identity. Some Notes for a History of Restoration in Colombia (1920-1970)

Apuntes: Revista de Estudios sobre Patrimonio Cultural, vol. 33, 2020

Pontificia Universidad Javeriana

Giaime Botti a

University of Nottingham Ningbo, China


Received: 31 July 2019

Accepted: 13 August 2019

Published: 28 December 2020

Sommario: Questo articolo propone un approccio alla storia della disciplina del restauro architettonico in Colombia a partire dagli anni Venti del XX secolo –durante i quali il dibattito sul tema del patrimonio prese forza spinto dalle ricerche su un’arte e un’architettura “propria” (nazionale)– fino ai Settanta, momento in cui il restauro iniziò ad avere un fondamento scientifico e a essere praticato da professionisti specificamente formati all’interno di centri universitari di ricerca. Questo lavoro, basato su un’ampia bibliografia secondaria e alcune fonti primarie parzialmente inedite, si sviluppa in una prospettiva di storia culturale, che abbraccia i campi della storia dell’arte, della letteratura e della politica, per mostrare le connessioni sottostanti tra differenti attività e allontanarsi così da una mera narrazione disciplinare. Ciò permette di segnalare le interrelazioni tra l’elaborazione di un discorso sul patrimonio e la sua tutela, le costruzioni identitarie nel campo dell’arte e i processi politici.

Parole:patrimonio, identità, restauro.

Resumen: Este artículo propone una aproximación a la historia de la disciplina de la restauración arquitectónica en Colombia, desde los años veinte del siglo XX ⸻durante los cuales el debate sobre el patrimonio tomó fuerza a raíz de las búsquedas de un arte y una arquitectura “propia”⸻ hasta los setenta, cuando la práctica de la restauración arquitectónica empezó a tener una fundamentación científica y ser desarrollada por profesionales específicamente entrenados al interior de centros universitarios de investigación. Este trabajo, basado en una amplia bibliografía secundaria y en unas fuentes primarias parcialmente inéditas, se desarrolla a partir de un enfoque de historia cultural, necesario para mostrar las conexiones subyacentes entre diferentes actividades, alejándose así de una mera narración disciplinar para en cambio abarcar los campos de la historia del arte, de la literatura y de la política, señalando las interrelaciones entre la elaboración de un discurso sobre el patrimonio y su tutela, las construcciones identitarias en el campo del arte y los procesos políticos.

Palabras clave: patrimonio, identidad, restauración arquitectónica.

Abstract: This article proposes an approach to the history of architectonic restoration in Colombia from the 1920s ⸻when the debate on the heritage was increased due to the search for their “own” art and architecture⸻ to the 1970s when the practice of architectonic restoration began to be supported on scientific grounds and developed by professionals specifically trained in the university research centers. This work is based on a broad secondary source bibliography as well as some partially unpublished primary sources and is conducted under a cultural history approach. This is a must to show the underlying connections between different activities and move away from just a discipline account. Rather, the aim was to cover the fields of History of Art, Literature and Politics, pointing out the interrelations between the production of a discourse on heritage and how to protect it, the identity constructions in the field of art and the political processes.

Keywords: heritage, identity, architectonic restoration.

Introduzione

Con qualche pretesa, questo contributo si propone come una storia del processo di costruzione di una pratica scientifica del restauro architettonico in Colombia, andando oltre la storiografia strettamente disciplinare per tener conto della storia e della sociologia dell’arte, oltre che della storia politica. Difatti, per quanto limitata a un ben determinato ambito, questa storia non può essere scritta senza allargare lo sguardo alla nascita del discorso sul patrimonio nel conteso colombiano. E tutto questo è a sua volta intrinsecamente legato a processi politico-culturali di nation building che, tra le altre cose, presentano riflessi diretti nella produzione artistica in senso lato. E così, la letteratura, la pittura, la scultura e anche l’architettura rientrano forzatamente nel discorso, come campi in cui si materializzerebbero i segni di quell’identità di uno Stato moderno che si costruisce proprio nei decenni qui presi in esame. In ragione di tale complessità, questo racconto non può che essere visto come un’operazione di storia culturale, che mostra le “connessioni” tra diverse attività umane (Burke, 1997, p. 201), come richiamato anche da Luis Fernando González Escobar (2013) nell’introduzione a Del alarife al arquitecto. I limiti imposti delle distinte storiografie disciplinari coinvolte devono pertanto essere travalicati proprio per mostrare le connessioni sottostanti. Allo stesso modo, in termini metodologici, è importante sottolineare la dimensione transnazionale dei fenomeni oggetto di studio. Così, se ciò che qui interessa è il caso colombiano, questo non può che essere inquadrato all’interno di un contesto regionale che, come si vedrà, costantemente informa e alimenta i processi in corso e le diverse posizioni in campo. Di fatto, sono proprio le modalità di questo inquadramento –la dimensione transdisciplinare tipica della storia culturale, la lente transnazionale con cui si leggono gli eventi e i processi– a proporsi come chiave di lettura originale, nonché principale apporto di questo studio.

In tale prospettiva, questa storia complessa e molteplice è indagata sulla base di una letteratura secondaria crescente, che ormai offre sia studi monografici puntuali, che visioni di sintesi sulle diverse diramazioni proposte. Il processo di costruzione di un discorso sul patrimonio è stato di recente oggetto di un’importante ricerca da parte di Alberto Escovar Wilson-White e Miguel Darío Cárdenas Angarita (2018), mentre alcuni snodi relativi alle controverse distruzioni di importanti edifici storici erano già stati presentati da Carlos Niño Murcia (1991) nell’imprescindibile volume Arquitectura y Estado. D’altra parte, gli studi di Francisco Ramírez e altri già da tempo avevano segnalato tanto la profondità del dibattito sull’architettura neocoloniale (Ramírez Potes et al., 2000), in contrasto con la riduttiva visione di Germán Téllez (1994), quanto del legame tra nazionalismo culturale e revival indigenista (Ramírez Potes, 2000). Per quanto riguarda l’ambito del restauro in Colombia, invece, si segnalano i due volumi editati da Rubén Hernández Molina e Olimpia Niglio (2011, 2012) e alcuni saggi centrati sulla figura dell’architetto-ingegnere italiano Angiolo Mazzoni (Niglio e Ramírez Nieto, 2016; Niglio, 2016), mentre sulla storia dell’arte e l’archeologia, a parte il fondamentale El arte colombiano de los años Veinte y Treinta di Álvaro Medina (1955), si rimanda a quanto citato nel corso del testo. In aggiunta a una consistente bibliografia, questo studio si serve di una cospicua base di fonti primarie di diverso tipo: un’ampia emerografia in parte nota e riesaminata, in parte finora non utilizzata, fornisce notevoli spunti per la comprensione di un dibattito che coinvolge diversi attori professionali, culturali e politici. Una serie di documenti inediti rinvenuti in archivi colombiani e internazionali completa il quadro delle fonti.

Quanto agli estremi cronologici, questa ricerca si apre nei primi decenni del Novecento, quando in Colombia la stabilizzazione politica e monetaria e una forte politica di infrastrutturazione favoriscono la ripartenza di un’economia orientata verso le esportazioni di caffè e altri prodotti agricoli, nonché la ripresa della manifattura. Con gli anni Venti, la spesa in opere pubbliche riceve un forte impulso e le città, anche sotto la spinta dell’azione privata, iniziano a crescere a ritmi accelerati (Bejarano, 1987). La grande quantità di incarichi a cui ingegneri, costruttori e alcuni architetti sono chiamati a rispondere e le demolizioni di edifici dell’epoca coloniale per fare posto alla città che cresce producono la prima presa di coscienza sullo stato dell’architettura nel paese e sul suo patrimonio. In contemporanea, in tutta l’America Latina il passaggio tra anni Dieci e Venti del Novecento segna un momento di straordinario dinamismo politico e culturale: le celebrazioni dei centenari dell’indipendenza favoriscono una riflessione sulle radici storiche e culturali delle nazioni americane e sulla loro identità. La Rivoluzione messicana scoppiata nel 1910 emerge come uno spartiacque per la storia dell’intero continente, mentre l’eco del movimento di riforma universitario di Córdoba scuote le istituzioni accademiche non solo argentine. Esponenti di movimenti politici di massa si contendono la presidenza di fronte a un numero sempre più grande di elettori, dal radicale Hipólito Yrigoyen in Argentina, a Víctor Raúl Haya de la Torre, fondatore in Perù dell’Alianza Popular Revolucionaria Americana, all’origine di uno dei più antichi partiti politici del continente e dei primi e più importanti movimenti latinoamericanisti. In seguito all’ecatombe della Prima guerra mondiale, il ruolo guida dell’Europa appare relativizzato e se a inizio secolo una delle parole d’ordine del dibattito tra intellettuali era stata blanqueamiento, cioè miglioramento della “razza” attraverso l’apertura alle civilizzate e operose genti europee, con gli anni Venti per gli intellettuali progressisti la nuova formula diventa quella del mestizaje: dal Messico, dove nel 1925 José Vasconcelos pubblica La raza cósmica, al Perù, dove José Carlos Mariátegui analizza per la prima volta in chiave marxista la “questione indigena” (Pini e Ramírez Nieto, 2012, pp. 144-170). Appare così necessario, per trattare di una disciplina che in Colombia si consoliderà solamente parecchi decenni più tardi, partire da questo fondamentale periodo, in cui il discorso sul patrimonio e sull’identità nazionale inizia a farsi rilevante e coinvolgere diversi campi. Nello specifico, si guarderà dapprima alla riscoperta della tradizione architettonica e artistica coloniale negli anni Venti e al dibattito su di un possibile “stile nazionale” per l’architettura che a questo processo si lega, per poi passare ad analizzare l’emergere di un interesse per un’altra tradizione, quella indigena, che dal campo della letteratura e delle arti visive raggiunge anche l’architettura. In seguito, si guarderà ai dibattiti innescati durante gli anni Trenta e Quaranta in conseguenza delle demolizioni di alcuni importanti edifici coloniali, sottolineando però come questo periodo segni anche un momento di svolta nella costruzione di un discorso sul patrimonio e di una legislazione adeguata alla sua tutela. In ultimo, si metteranno in evidenza i primi interventi di restauro informati da un’azione finalmente “scientifica”, risultato della presenza di figure con una formazione specifica nel campo e del consolidamento di alcuni istituti di ricerca universitari che si registra a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, termine ad quem di questo studio.

La riscoperta della tradizione coloniale e la ricerca di uno “stile nazionale” per l’architettura

A cavallo tra anni Dieci e Venti, in un quadro regionale di crescente riflessione culturale sull’identità “americana” e in un contesto nazionale di crescita economica e sviluppo urbano, anche in Colombia architetti e ingegneri iniziano a non riconoscere più nell’Europa l’unico riferimento possibile. Come in altri paesi, comincia a crescere l’interesse per le tradizioni artistiche e architettoniche, parzialmente autoctone, dell’epoca coloniale. L’ingegnere Alfredo Ortega Díaz, nella monografia Arquitectura de Bogotá (1924), offre una prima analisi di una città in rapida trasformazione, sul punto di perdere l’eredità materiale dell’epoca coloniale, sostituita da quartieri moderni di alti e ariosi edifici. Nel testo, sebbene il giudizio nei confronti della città nuova non appaia pregiudizievole, si dimostra ferma la critica alla distruzione cui il tessuto urbano coloniale è quotidianamente sottoposto: “En Bogotá está ocurriendo lo mismo, pues el espíritu reformador invadió ya todos los campos y amenaza acabar diariamente con las obras que nos legó la colonia”. Processi simili, secondo l’autore, sono in corso anche in Messico, dove però, a differenza che in Colombia, sarebbero i liberali a portare avanti le devastazioni (Ortega Díaz, 1924, pp. 81-82)1. Intanto, sulla rivista Renacimiento, fondata da Alberto Manrique, Ortega è presentato come “uno de los defensores más entusiastas de la arquitectura colonial que diariamente se va destruyendo torpemente en la ciudad” (“Doctor Alfredo Ortega”, 1922). Lui stesso, facendo riferimento a quanto accade a Buenos Aires, auspica l’istituzione di un corso sull’architettura coloniale nella Facoltà di Ingegneria, affinché questa tradizione possa diventare una fonte “de donde surja uno [estilo] propio y bien característico, más adaptable, por tradición y por costumbre a nuestra vida nacional” (Ortega Díaz, 1922, p. 2). Un altro ingegnere, Cristóbal Bernal, sugli Anales de Ingeniería difende l’eredità coloniale spagnola di fronte alla cultura d’importazione francese e inglese: “Idea que dominaba completamente nuestros espíritus, y de la que aún quedan rastros por desgracia, era la de que lo español había de ser necesariamente atrasado, cursi y feo: si la manufactura no era inglesa, si el estilo no era francés, la mercancía era de poco valor, el arte nulo, sin mérito y aún despreciable” (Bernal, 1919). E le sue ricerche storiche sulle chiese coloniali non appaiono disinteressate, costituendosi di fatto come condizione necessaria per una prassi alternativa, basata sul recupero della tradizione architettonico-artistica coloniale e non solo:

Estudiemos el arte colonial español; investiguemos la arqueología precolombiana; no descuidemos el cultivo de los modelos clásicos y de los medievales, de todos tomamos algo, fundámoslo y amalgamémoslo con la atávica influencia española; adaptémoslo a nuestro ambiente, a nuestras necesidades y circunstancias, con atrevida sinceridad, pero sin extravagancia, para lograr un día el fruto nacional acodiciado. (Bernal, 1925, p. 367)

Il dibattito rimbalza da una parte all’altra del continente: in uno scritto intitolato “Colonialismo”, Bernal risponde a un intervento dallo stesso titolo apparso sulla rivista uruguaiana Arquitectura, nella quale si criticava la ricerca di uno stile americano basato sulla riproduzione dell’architettura dell’epoca coloniale:

Los que preconizamos el estudio del arte español como indispensable para formar el nuéstro, sólo queremos lo que es conforme a la naturaleza; ni se diga, como es el caso en las playas rioplatenses, que el cosmopolitismo es esponja que borra la influencia atávica; no, los hijos conservan siempre en su porte, en sus facciones, los rasgos característicos, el sello inconfundible de los padres, así sean ellos de nacionalidades distintas. Que somos pueblos sin antecedentes ni tradición? (Bernal, 1926, pp. 310-311)

Non deve sorprendere, quindi, che anche in Colombia si recepisca un dibattito che dagli Stati Uniti, grandi esportatori di mode architettoniche (Amaral, 1994, p. 14), rimbalza per l’intero continente attraverso i network delle riviste (Pini e Ramírez, 2012) e dei Congresos Panamericanos de Arquitectos2. Nel 1915 in Messico, Federico Mariscal pubblica La Patria y la Arquitectura Nacional: un appello a studiare il passato per riprendere in mano l’eredità coloniale, un’eredità meticcia da opporre all’importazione di modelli esotici. Nel primo Congreso Panamericano de Arquitectos nel 1920 a Montevideo già si registrano interventi in questa direzione: l’uruguaiano Fernando Capurro presenta una relazione per promuovere l’insegnamento della storia dell’architettura americana nelle università, mentre il connazionale Román Berro riflette sulle possibilità di praticare un’architettura “americana” (S. A., 1921; Gutiérrez et al., 2007). Qui, la delegazione ufficiale colombiana è formata dal solo Alberto Manrique, in rappresentanza del governo e della Facoltà di Ingegneria dell’Universidad Nacional, ma tra i membri titolari e associati compaiono anche i nomi di Alfredo Ortega, Cristóbal Bernal e Arturo Jaramillo. Al secondo Congresso, che si svolge a Santiago de Chile nel 1923, per la Colombia partecipa nuovamente Manrique, insieme a Francisco J. Casas e al cileno Onofre Montané Urrejola (S. A., 1925). In quest’occasione, il problema della ricerca di un’identità americana e nazionale nell’architettura inizia a farsi strada con più forza. Il settimo tema di discussione, già in parte trattato nell’incontro precedente, mira a promuovere la creazione di musei dei materiali, sottintendendo la preoccupazione per l’espressione di un carattere nazionale attraverso l’uso di materiali e tecniche costruttive locali. Un altro tema all’ordine del giorno riguarda la conservazione dei monumenti di valore storico, architettonico e archeologico: una questione strettamente legata al problema dell’identità nazionale. Intanto in Colombia, dopo l’approvazione della Legge 48 del 1908 che, tra le altre cose, aveva dichiarato patrimonio storico nazionale gli edifici pubblici, i monumenti, gli ornamenti e le sculture di epoca coloniale e i monumenti del periodo precolombiano, è approvata nel 1924 la Legge 32, che ordina la conservazione e l’abbellimento dei monumenti di Cartagena de Indias e vietata la distruzione di immobili e fortificazioni in città.

In questo momento, non appare dunque casuale il legame tra gli Anales de Ingeniería3 e la rivista uruguaiana Arquitectura, né il fatto che alcuni degli autori colombiani più attivi sul tema della ricerca di un linguaggio nazionale di derivazione coloniale prendano parte ai primi Congressi. Ortega (1924, p. 92) ad esempio, nel libro già citato, prende pacatamente posizione in favore di coloro i quali perseguono nella ricerca di uno stile basato sulla tradizione coloniale:

Para corresponder mejor a las exigencias de renovación que predominan en la actualidad, juzgamos que el arquitecto podría iniciar una restauración del estilo colonial, adaptándolo a las necesidades modernas y a la calidad de los materiales de que dispone. …Quizá en esas fuentes pudiera hallarse un estilo latino-americano, que responda mejor a las necesidades de cada región, sin tener que echar mano de imitaciones serviles que solamente revelan pobreza de imaginación y no llegan a caracterizar un estilo propio, nacional.

Il colombiano riporta nel testo le conclusioni del primo Congreso Panamericano de Arquitectos e conclude il libro con alcuni concetti che richiamano problematiche là sollevate, come l’idea che il pubblico vada educato a una migliore comprensione dell’architettura. Le sue posizioni risultano così parte di un dibattito transnazionale che vede i movimenti neocoloniali prendere forza in vari paesi. Nel 1922 in Brasile, in occasione delle celebrazioni per il centenario dell’indipendenza, emergono due visioni inconciliabili della brasilidade: da una parte, riuniti a Rio de Janeiro intorno a José Mariano Filho, si ritrovano i sostenitori del movimento neocoloniale; dall’altra, Oswald de Andrade insieme a diversi intellettuali e artisti modernisti cerca a São Paulo una sintesi tra i postulati delle avanguardie europee e la sensibilità brasiliana (Guerra, 2010). L’anno dopo, Mariano Filho (1923) scrive l’appello Osdez mandamentos do estilo neocolonial. Aos jovens arquitetos. In Argentina nel frattempo, a seguito di alcuni articoli di Alejandro Christophersen sull’architettura coloniale negli anni Dieci, prima l’architetto ungherese Juan Kronfuss pubblica Arquitectura colonial en la Argentina(1920), più tardi Martín Noel dà alle stampe Fundamentos para una estética nacional (1926) e Ángel GuidoOrientación espiritual de la arquitectura en América (1927). Questi architetti-studiosi avviano così una stagione di ricerca storica che accompagna proposte progettuali ispirate al periodo coloniale, come nel caso della facciata dell’Universidad de Córdoba disegnata da Kronfuss o del Padiglione argentino nell’Esposizione Iberoamericana di Siviglia del 1929 di Guido.

Il dibattito cresce d’intensità nel terzo Congreso Panamericano de Arquitectos ospitato a Buenos Aires nel 1927 (S. A., 1927). Ora, posizioni “americaniste” sono espresse da rappresentanti di ogni paese, sebbene con sfumature diverse. E il Congresso successivo –Rio de Janeiro 1930– segna l’apice dello scontro ideologico. I partecipanti si dividono in tre schieramenti: accademisti, sostenitori del neocoloniale e modernisti. “Regionalismo e internacionalismo en la arquitectura actual. Orientación espiritual de la Arquitectura en América” è il primo tema all’ordine del giorno. Nelle conclusioni, si ribadisce la compatibilità tra regionalismo, tradizionalismo e spirito moderno. Inoltre, si promuovono la creazione di cattedre per lo studio dell’architettura e dell’arte nazionale, la ricerca di un’arte decorativa ispirata alla flora e alla fauna locale, la realizzazione di un’architettura scolastica ispirata alle tradizioni regionali (Gutiérrez et al., 2007, pp. 13-16).

Intanto in Colombia si registra una significativa polemica sulle pagine della rivista Progreso4 di Medellín. Guillermo Herrera Carrizosa, architetto formatosi negli Stati Uniti e più tardi primo decano della Facoltà di Architettura dell’Universidad Nacional a Bogotá, esprime il proprio anelo a creare un’architettura nazionale (Herrera Carrizosa, 1927a). Un concetto che ribadisce anche sulle pagine di Universidad, una delle principali piattaforme editoriali del nazionalismo culturale colombiano (Herrera Carrizosa, 1927b, p. 255)5. Con lucidità, a lui risponde l’architetto belga Agustín Goovaerts (1927), attivo a Medellín: “Pero a mí me parece, y puedo equivocarme, que el estilo nacional es una teoría, una utopía que puede ser agradable a los espíritus nacionalistas e idealistas, pero que en la práctica no deja de ser una imposibilidad”. Nel quadro di forte eclettismo che caratterizza la professione in questi anni –inclusi sia Goovaerts che Herrera, la cui opera spazia senza troppi problemi dal revival ispanico al Tudor– risulta evidente la lucidità del belga, che comprende come l’idea stessa di stile nazionale non possa essere che un’utopia, o, come spiega oggi Jorge Ramírez (2009), una “nozione in transito” con una permanenza relativamente breve.

Certo è che, in questo periodo, per moda d’importazione, per sincera adesione ideologica a un dibattito dal carattere transazionale o per entrambe le ragioni, nella produzione architettonica colombiana il revival ispanico-coloniale, in tutte le sue possibili declinazioni stilistiche, entra prepotentemente nel repertorio di architetti, ingeneri e costruttori. A Cali, dove per altro operano anche diversi architetti di formazione nordamericana, gli esempi costruiti sono molteplici, dall’Edificio per l’Acquedotto municipale progettato dall’ingegnere statunitense Geo Bunker nel 1920, al Banco de la República di Fred T. Ley & Co del 1929; dal Banco Alemán Antioqueño del 1935 di Guillermo Garrido, alle case di Gerardo Posada e dei fratelli Calero (Ramírez et al., 2000). A Bogotá, l’edificio principale del nuovo impianto dell’acquedotto di Vitelma è realizzato tra il 1934 e il 1938 in forme spiccatamente neocoloniali su progetto degli studi nordamericani Geo Bunker, Fuller & Everett Civil Engineers e Barry Butler Gillan Consulting Architects. Anche lo Stato, a partire dagli anni Trenta, si trasforma in committente di architetture ispirate alla tradizione coloniale, in maniera simile a quanto accaduto in Messico negli anni Venti, quando sotto la direzione di José Vasconcelos alla Secretaría de Educación Pública, il linguaggio coloniale si era imposto tanto per le scuole rurali, quanto in complessi educativi urbani. Così, in Colombia, nel decennio successivo, questo linguaggio si diffonde nell’edilizia scolastica, in edificazioni che, allontanandosi dalla geometrizzazione déco o dalla semplificazione modernista, si caratterizzano per la presenza di arcate a tutto sesto e colonnati, coperture con coppi a vista, balconi e balaustre in legno, cornicioni compositi e contrafforti che marcano gli ingressi (Niño Murcia, 1991, pp. 141-169).

Il mondo dell’arte e la scoperta di altre radici

Come in altri paesi latinoamericani, anche in Colombia l’ispanismo, declinato architettonicamente come revival coloniale, non rappresenta però l’unico percorso di ricerca nella direzione identitaria. In anticipo sul forte rinnovamento politico segnato dall’inizio della cosiddetta “Repubblica liberale” nel 1930 e soprattutto del primo governo di Alfonso López Pumarejo (1934-38), è il campo letterario ad aprire il cammino. La pubblicazione nel 1924 del romanzo di José Eustasio Rivera La vorágine segna un momento fondamentale nel processo di disvelamento della violenza e dello sfruttamento di lavoratori e popolazioni indigene durante gli anni della “febbre del caucciù” nell’Amazzonia colombiana. Nel 1929, Armando Solano Paipa, politico liberale, diplomatico, giornalista e scrittore, pubblica La melancolía de la raza indigena, testo fondativo di quel nazionalismo culturale di matrice indigenistache segnerà il decennio. Nel libro, dietro a una rivendicazione apparentemente razziale, emerge un discorso di rifiuto del capitalismo e dell’imperialismo nordamericano, accompagnato da un incitamento alla ricerca di un’identità propria nella pratica artistica e culturale, inclusa l’architettura. Da questo momento, grazie a intellettuali, scrittori, pittori e scultori, elementi della cultura indigena iniziano a essere considerati parte dell’identità nazionale e incorporati nella produzione artistica. In generale, si riconoscono adesso nella cultura delle popolazioni indigene e afroamericane e nella “terra” dei valori alternativi a quelli provenienti dall’Europa e dai suoi fondamenti di razionalità e scientificità (Franco, 1967, p. 103). Nel campo letterario, gli elementi della natura tropicale, le selve impenetrabili e mortifere delle regioni di frontiera, iniziano a essere il soggetto della narrazione. Al fianco delle peripezie degli avventurieri in queste inospitali terre di confine, si cominciano a narrare le sofferenze degli indios decimati da violenze e schiavitù o dei lavoratori delle multinazionali nordamericane. Su questa linea si ritrovano i due bellissimi romanzi di César Uribe Piedrahita Toá: narraciones de caucherías (1933) e Mancha de aceite(1935). E anche nelle arti visive si fanno strada nuovi contenuti.

In Colombia, la parola “terra”, come in Perù e Messico indigenismo, richiama ora una nuova concezione dell’arte (Medina, 1995, p. 42). Soggetti come il “tropico”, il “precolombiano”, l’“indigeno” e il “contadino lavoratore” diventano comuni a una compagine di artisti che saranno identificati dalla critica contemporanea come appartenenti al movimento Bachué6. Un gruppo, mai formalizzato come tale, che prende il nome dalla dea madre della cultura Muisca, scelta da Rómulo Rozo come soggetto di una scultura collocata al centro del Padiglione colombiano dell’Esposizione Iberoamericana di Siviglia del 1929. Al movimento possono essere associati anche intellettuali e scrittori come Darío Achury Valenzuela e Gregorio Hernández de Alba, che nel 1937 pubblica una serie di racconti, introdotti dallo stesso Rozo, dal titolo Cuentos de la Conquista. Chiaramente, questo processo di rinnovamento è intimamente legato alla ricezione di diversi movimenti artistici internazionali. Se da una parte l’avvicinamento alle avanguardie europee e all’astrattismo si dimostra superficiale e appena sufficiente a modernizzare il linguaggio pittorico e plastico, come evidente dalle opere di Pedro Nel Gómez, Luis Alberto Acuña o Ignacio Gómez Jaramillo (Iriarte, 1977, p. 19), più rapida è invece l’assimilazione delle idee alla base dell’esperienza del muralismo messicano, l’unica scuola latinoamericana della cui influenza si risente in tutto il continente (Rubiano Caballero, 1982, pp. 418-419). Non a caso, molti artisti colombiani –certamente Rozo e Acuña– viaggiano in Messico, conoscendo di persona i grandi maestri José Clemente Orozco, Diego Rivera e David Alfaro Siqueiros e contribuendo anche in questo modo alla diffusione delle loro idee, le quali, già dalla fine degli anni Venti, circolano nel paese all’interno di riviste d’avanguardia come Universidad, dove è in molti casi lo stesso direttore Germán Arciniegas a firmare articoli sull’arte e la letteratura messicana.

A livello architettonico, i temi dell’indigenismo provenienti dalle ricerche degli artisti sono recepiti con cautela come possibili elementi di un’espressione nazional-identitaria. Il progetto che per primo e meglio palesa questa tendenza è il Padiglione colombiano di Siviglia, disegnato dall’architetto spagnolo José Granados de la Vega in un confuso linguaggio coloniale e, a edificio già innalzato, rivisto e decorato da Rozo secondo un’iconografia indigenista. Tuttavia, dopo questo progetto, la cui eco risuona in Colombia con grande forza sulla stampa (González Escobar, 2013, p. 361), negli anni successivi gli esempi realizzati sono pochi e gli architetti si limitano a proporre questi elementi decorativi senza sviluppare un discorso integrale in termini di sperimentazioni spaziali o costruttive, come evidente in progetti di Roberto Sicard Calvo, dall’Edificio El Tiempo al Piedrahita a Bogotá, o più tardi il Teatro Rienzi, il Collegio Cárdenas e il Tribunale municipale di Palmira. In questo modo, l’immaginario indigenista resta ai margini del dibattito e della pratica architettonica, generalmente soppiantato dal più forte appeal dei motivi di origine ispanica.

In ogni caso, bisogna notare che non si riscontra una particolare frattura tra tendenza neocoloniale e indigenista lungo linee politiche, al contrario di quanto era accaduto ad esempio in Perù, dove la prima tendenza era diventata espressione dei settori più conservatori e la seconda di quelli progressisti (Cuadra, 1991, p. 35). In Colombia infatti, sebbene l’avversione dei conservatori per gli artisti Bachué sia chiara dagli strali che personalità come Laureano Gómez indirizzano a molti di questi (Medina, 1995, pp. 281-304), il Partito Liberale, con molti limiti ed eccezioni, mostra in ambito architettonico una contemporanea adesione a diverse tendenze: neocoloniali, indigeniste, moderniste. L’immagine scelta dal governo colombiano per rappresentarsi di fronte al mondo in occasione del Golden Gate International Exhibition di San Francisco del 1939, ad esempio, è a prima vista quella della tradizione coloniale, evidente nelle forme del Padiglione disegnato dall’architetto Pablo de la Cruz7. Quanto all’allestimento, però, oltre alla presenza di una vera piantagione di caffè, è da notare l’esibizione di oggetti artigianali e della piccola industria, come i cappelli “Panamá” o l’argento battuto, e soprattutto dell’oreficeria precolombiana delle popolazioni Pijao e Muisca (“Debe tener más superficie”, 1939; Golden Gate International Exhibition, 1939, p. 36).

Chiaramente, la presenza di una collezione archeologica nel Padiglione colombiano non è casuale. Infatti, mentre pittori e scultori modernisti adottano con slancio e sincerità i temi dell’indigenismo e alcuni architetti ne sondano le potenzialità, il Partito Liberale, in cerca di nuove alleanze in una popolazione rurale considerata tendenzialmente ancorata a valori conservatori e al tempo stesso possibile obiettivo dei nascenti movimenti socialisti e comunisti, inizia a elaborare un discorso politico di legittimazione della componente indigena (Troyan, 2007). Di qui, l’appoggio a intellettuali e artisti che portano avanti un’agenda culturale in linea con queste aspirazioni, ben visibili nelle opere e nelle dichiarazioni degli appartenenti al gruppo Bachué. Sfogliare la Revista de las Indias, pubblicata dal Ministerio de Educación Nacional, e altri periodici e quotidiani come la rivista di arte e letteratura Universidad, fondata da Germán Arciniegas nel 1921, Pan, avviata da César Uribe Piedrahita ed Enrique Uribe White negli anni Trenta, il settimanale d’attualità e costume Cromos, o il quotidiano liberale El Tiempo, permette di comprendere il progetto politico di nazionalizzazione culturale lanciato dall’élite liberale. Su queste pubblicazioni, infatti, si susseguono articoli dedicati alle scoperte archeologiche nei siti di San Agustín e Tierradentro, agli studi etnografici sulle popolazioni indigene, alle esplorazioni delle frontiere del paese, dalle regioni amazzoniche ai ghiacciai delle cime più alte.

Per la pionieristica attività di ricerca archeologica ed etnografica, accompagnata da un forte attivismo divulgativo sulle piattaforme editoriali poc’anzi citate, si distinguono in questo momento César Uribe e Gregorio Hernández de Alba. Il primo, cui si è già accennato in relazione ad alcuni fondamentali opere letterarie, rappresenta la tipica figura dell’intellettuale multiforme. Oltre che scrittore, medico e artista, Uribe negli anni Trenta inizia ad occuparsi di archeologia, traducendo in castigliano il libro dell’etnologo tedesco Konrad Theodor Preuss (1931), primo a studiare il sito di San Agustín, e poi occupandosi dell’arte Quimbaya, con un breve studio ricco di belle tavole da lui disegnate pubblicato sulla Revista de las Indias (Uribe Piedrahita, 1936), anticipazione di un’opera probabilmente mai data alle stampe. E ancora più rilevante è la figura di Gregorio Hernández, pioniere negli studi archeologici ed etno-antropologici in Colombia, campi in questo momento ancora poco formalizzati e per molti versi indistinti tra loro. Figlio di un architetto-costruttore, Hernández, che conosce Germán Arciniegas durante gli studi all’Escuela Nacional de Comercio, si lega negli anni Trenta al movimento Bachué. Nel 1935, Gustavo Santos, fratello del futuro presidente e direttore dell’Extensión Cultural y Bellas Artes del Ministerio de Educación Nacional, lo nomina direttore del nuovo Servicio Arqueológico Nacional. Ed è in questo periodo che egli compie le sue prime ricerche antropologiche nella penisola della Guajira e archeologiche a San Agustín e Tierradentro, promovendo una fondamentale attività di divulgazione attraverso numerosi scritti pubblicati su El Tiempo, Cromos, Pan e Revista de las Indias. Nel 1939, dopo l’arrivo di Paul Rivet, Hernández si reca a Parigi per compiere studi di specializzazione al Musée de l’Homme. Nel 1941, i due fuggono in Colombia, dove fondano l’Instituto Etnológico Nacional, con cui collabora anche il catalano Josep de Recasens. Nell’istituto, in cui si formerà negli anni successivi un’intera generazione di archeologici colombiani, da Luis Duque Gómez a Eliécer Silva Célis, Hernández è docente di Etnografia dal 1941 al 1943. Successivamente, insegna Sociologia americana all’Universidad Nacional a Bogotá e dal 1943 al 1948 Etnografia, Archeologia e Antropologia all’Universidad del Cauca8. Nel 1943, Rivet lascia la Colombia alla volta degli Stati Uniti, in un momento in cui, per ragioni personali e di pubblico riconoscimento, le relazioni tra questi ed Hernández si sono raffreddate (Perry Posada, 2006; Troyan, 2007). Negli stessi anni, anche l’archeologo e antropologo spagnolo José Pérez de Barradas svolge una serie di ricerche nei medesimi siti, poi pubblicate su Cromos e sulla Revista de las Indias e in una monografia dal titolo Arqueología y antropología precolombinas de Tierra Dentro (Pérez de Barradas, 1937).

Distruzione e ricostruzione del patrimonio coloniale

Ciò che accade in Colombia in questi decenni appare facilmente comprensibile alla luce del grande dibattito sull’americanismo in corso da tempo nel continente e al costante dialogo che intercorre tra intellettuali, artisti e politici latinoamericani. Al Congreso Panamericano de Arquitectos di Santiago de Chile del 1923 è introdotto il tema della conservazione dei monumenti storici, architettonici e archeologici, poi ripreso a Rio de Janeiro nel 1930, con la raccomandazione di istituire sovrintendenze dei monumenti nazionali su modello francese, inventariare i beni e fondare musei nazionali d’arte (Gutiérrez et al., 2007)9. Sempre in Brasile, nel 1937 è istituito il Serviço do Patrimônio Histórico e Artístico Nacional con Lucio Costa alla guida (Piccarolo, 2013). Nel 1933, in occasione della Séptima Conferencia Internacional Americana di Montevideo, si dibatte su come collaborare per rendere effettivo il rispetto e la conservazione dei monumenti storici e dei resti archeologici e nel corso della conferenza sono presentanti diversi progetti di conservazione del patrimonio precolombiano e coloniale in Messico e in Guatemala e di siti naturalistici in Brasile (Guedes, 2015). I contenuti di questo dibattito sono di fatto recepiti in Colombia attraverso una serie di interventi legislativi: dalla Legge 103 del 1931, che dichiara il sito di San Agustín di interesse nazionale, alla Legge 4 e 124 del 1936, che ratifica l’adesione al cosiddetto Patto Roerich10. La Legge 5 del 1940, con la sua regolamentazione approvata solo nel 1946, rende infine possibile la dichiarazione di pubblica utilità per quegli edifici che per bellezza e antichità devono essere conservati, mentre la Legge 94 del 1945 proibisce la costruzione sulle e intorno alle mura di Cartagena. Dopodiché, per altri interventi legislativi in materia, bisognerà aspettare la Legge 163 del 1959, su cui si tornerà più avanti.

Intanto, il processo di modernizzazione a cui sono sottoposte le città, in particolare Bogotá, esaspera le contraddizioni tra la volontà di preservare beni fondativi dell’identità nazionale e quella di rompere con il passato per costruire finalmente una moderna città capitale. Così, nel corso degli anni Trenta, si intensificano quelle distruzioni del patrimonio architettonico coloniale che già nel decennio precedente personalità come Alfredo Ortega (1924) denunciavano. La costruzione del Palazzo San Francisco, iniziata nel 1918 e terminato nel 1933, infatti, aveva portato alla demolizione del convento de la Purificación de Nuestra Señora. Sulle pagine di Cromos se ne lamentava la perdita e già si intravedevano le conseguenze di quella che veniva definita una “obra innecesaria de modernización”, sebbene la torre della chiesa di San Francisco, nonostante i timori espressi dell’autore dell’articolo, sopravviverà: “La torre, lo único que nos recordaba esas épocas, está tomando, a consecuencias del inoportuno baño de cemento con que la disfrazan y deforman, una apariencia vieja ridícula; no demorará en ser derruida, para que las calles queden más anchas y haya mayor espacio para transeúntes, tranvías y automóviles” (“La torre de San Francisco”,1923). Ma il caso forse più emblematico da questo punto di vista è quello della chiesa e del convento di Santo Domingo nel centro di Bogotá, abbattuto per fare posto al nuovo Palazzo delle Comunicazioni, noto come Edificio Murillo Toro. Le fasi salienti di questo processo e il dibattito che si sviluppa sono stati ben raccontati da Carlos Niño Murcia (1991, pp. 127-133). Il complesso conventuale, che dal XVII secolo occupava l’intero isolato compreso tra la Calle 12 e 13 e la Carrera 7. e 8., è dichiarato da demolire già nel 1927, attraverso una legge approvata dal governo conservatore di Miguel Abadía Méndez. Ciononostante, l’idea è abbandonata per ragioni finanziarie e solo nel 1936, grazie a un prestito del Banco Central Hipotecario, riprende forza. Commissionato a Hernando González Varona, poi a Santiago Esteban de la Mora e, infine, a Bruno Violi, l’Edificio Murillo Toro è elevato a partire dal 1939 in un pesante classicismo, solo parzialmente alleggerito dal tardivo intervento dell’italiano. Malgrado un intenso dibattito che vede schierati in difesa del convento istituzioni quali la Sociedad de Mejoras y Ornato, la Academia de Historia e la Escuela Nacional de Bellas Artes, insieme a molti giornali legati al Partito Conservatore, nel 1939 inizia la demolizione dell’edificio e del suo chiostro, mentre la chiesa è venduta nel 1943 e abbattuta nel 1947. L’intervento diretto del presidente Eduardo Santos in favore della demolizione mette fine alla discussione. Le sue argomentazioni, come quelle di molte altre personalità sulla stessa linea, non mettono tanto in dubbio il valore dell’architettura coloniale, ma piuttosto sottolineano la perdita di autenticità e la mancanza di un valore artistico e architettonico della fabbrica. Anche l’architetto Pablo de la Cruz, intervistato su El Tiempo, così risponde alle domande del giornalista:

Por ahora, puedo adelantarle que desde hace muchos años vengo siendo partidario ferviente de la demolición de Santo Domingo. Es muy respetable, sin duda, la opinión del profesor de la Universidad de California, Mr. Howards Moise, en la que dice que es el mejor edificio colonial que él haya conocido, pero yo me permito insinuar, tal vez aventuradamente, pero siempre con respeto, que es muy probable que el profesor Moise no haya visto más edificios coloniales en su vida. …Su interior como obra arquitectónica no vale un pepino. Yo estoy seguro de que el entusiasmo juvenil del señor ministro de obras públicas, doctor Abel Cruz Santos, no se dejará arredrar por el romanticismo y que pronto veremos “torn down” la mentada joya. (“Debe tener más superficie”, 1939)

Ma soprattutto, emerge chiaramente la priorità che il processo di modernizzazione dello Stato e della città assume su qualunque altra istanza, compresa quella della tutela del patrimonio, nonostante sia in questo periodo che il problema inizi a porsi a livello culturale e politico:

El gobierno está de acuerdo en dar al edificio de Santo Domingo toda la importancia histórica que merece, y en un principio estudió la manera de conservar el claustro del patio principal. Pero como era necesario ampliar las calles, no se encontró una solución conveniente. Por otra parte, no cree el gobierno que el valor histórico y artístico del edificio sea tan grande que justifique el sacrificio de un lote de inmensa importancia para la nación, a un sentimiento que dígase lo que se quiera, no pasa de ser simplemente romántico. Respecto al valor arquitectónico, la serie de transformaciones porque ha pasado al edificio le han quitado completamente su carácter primitivo. (“Las características del edificio”, 1939)

O, come spiega uno degli architetti incaricati del progetto, Hernando González, “son dolorosos sacrificios que impone el progreso. Hoy o mañana, pero el destino de este claustro sí es el inexorable de desaparecer para dar paso a las necesidades inaplazables de la capital de la república” (“El Palacio de Comunicaciones”, 1939). Dall’altra parte dello schieramento politico, invece, ma forse più per contrarietà di principio che per reale credo, si prende posizione contro la demolizione.

Un altro caso emblematico è quello del convento di San Agustín, demolito nel 1940 per lasciar spazio all’Edificio dei Ministeri progettato da Herrera Carrizosa Hermanos e quello della chiesa di Santa Inés, demolita nel processo di ampliamento della Carrera 10. (Niño Murcia e Reina Mendoza, 2010, pp. 103-131). In difesa della chiesa, Guillermo Hernández de Alba (1952), storico e studioso dell’arte coloniale e fratello di Gregorio, richiama con fiducia Carlos Arbeláez e Francisco Pizano, citando la Carta del restauro di Atene come guida per conservare ed esaltare i monumenti storici, mentre Carlos Martínez (1953), pur includendosi tra quanti si erano opposti alla demolizione del convento di Santo Domingo, si dichiara a favore dell’abbattimento della chiesa, che avverrà effettivamente nel 1956.

Questi casi mostrano così la precarietà del patrimonio architettonico colombiano in questi decenni, nonché le contraddizioni che emergono tra gli stessi protagonisti –politici, culturali, professionali– di tale stagione. Modernizzazione e conservazione come forze in perpetuo conflitto, ma anche due volti di una stessa medaglia. Per cercare di andare più a fondo in questa apparente contraddizione, si possono citare altri fatti che si registrano proprio in questo periodo. È infatti negli ultimi anni della “Repubblica liberale” che si creano o riadattano istituzioni museali che fino a pochi anni prima sembravano impensabili (Rincón, 2015, pp. 208-232). Nel 1942, una delle poche edificazioni coloniali sfuggite alle demolizioni, la Casa de las Aulas, è trasformata in Museo de Arte Colonial, sotto impulso del ministro dell’Educazione Germán Arciniegas, che ne affida la direzione a Teresa Cuervo Borda, poi sostituita da Sophy Pizano de Ortiz. Nel frattempo, grazie all’azione di Paul Rivet e all’appoggio del presidente Eduardo Santos, l’oro delle popolazioni indigene smette di essere fuso e si organizza una delle più straordinarie collezioni orafe del mondo, quella del Museo del Oro del Banco de la República. Nel 1948, infine, è inaugurato il Museo Nacional, fondato nel 1823 e di fatto chiuso pochi anni dopo per mancanza di fondi. La nuova sede scelta è il vecchio carcere della città, con il suo panottico trasformato in fulcro dello spazio museale da un intervento diretto da Hernando Vargas. Poco prima, Carlos Martínez (1945) aveva difeso l’edificio dalla demolizione, proponendo che fosse adibito a museo d’architettura ed elencando una serie di caratteristiche che il vecchio carcere presentava: “Es hermosos porque tiene carácter, porque es sobrio, porque indica claramente la función a que está destinado”.

Ancora una volta, la costruzione di un discorso sul patrimonio è comprensibile guardando alla convergenza tra un filone di ricerca orientato allo studio del periodo coloniale e uno centrato sugli studi etno-antropologici e archeologici. Una convergenza non certo atipica in quella prospettiva di ibridazione e sincretismo (García Canclini, 1989) che caratterizza la cultura latinoamericana dell’epoca, ben visibile nell’attività di figure impegnate in una sintesi fra tradizioni apparentemente divergenti. In Colombia, uno dei protagonisti è senza dubbio Luis Alberto Acuña. Artista di indole nazionalista legato al gruppo Bachué, professore all’Escuela Nacional de Bellas Artes, è anche un attivo pubblicista che firma articoli sul quotidiano El Tiempo e sulle principali riviste culturali del periodo. Ma soprattutto, la figura di Acuña presenta un particolare interesse per il suo ruolo di sintesi e raccordo tra le sensibilità espresse da artisti e intellettuali indigenisti e coloro i quali cercano risposte nella tradizione ispanica (Motta Durán, 2015). Acuña, inoltre, interviene sin dagli anni Trenta come restauratore su alcuni edifici coloniali, spesso di particolare valore simbolico per l’identità nazionale colombiana. A Cali, porta a termine il restauro della torre mudéjar della chiesa di San Francisco con un’operazione dai forti toni ricostruttivi e romantici che trasforma l’azione di restauro in una ricostruzione secondo le linee idealizzate di un linguaggio neocoloniale. Vicino a Palmira, realizza un intervento ancora più rilevante dal punto di vista simbolico: il restauro della hacienda El Paraíso, luogo di ambientazione del romanzo María di Jorge Isaacs. Restauro che è in realtà ricostruzione idealizzata, copia architettonica ammobiliata e decorata seguendo le pagine del romanzo, dimenticando ciò che El Paraíso era davvero: una hacienda che funzionava grazie al lavoro di schiavi (Rincón, 2015, pp. 50-52). Nei decenni successivi Acuña opera anche a Tunja, restaurando la Casa Museo Don Juan de Vargas, anche nota come Casa del Escribano, e a Villa de Leyva, dove trasforma la Casa del Congreso in sua casa-studio. In tutti i casi, si stratta di pesanti interventi di restauro ricostruttivo, dai toni fortemente romantici.

A livello artistico, nel frattempo iniziano a consolidarsi altre tendenze. Se la prima modernizzazione, infatti, aveva portato i pittori e gli scultori del gruppo Bachué a fare proprie tematiche tipicamente “americane” e nazionaliste, filtrate soprattutto attraverso l’esperienza del muralismo messicano, per una modernizzazione formale intesa come ricezione della rivoluzione astrattista bisognerà attendere la fine degli anni Quaranta. Per comprendere questo processo bisogna guardare agli Stati Uniti, dove già dal decennio precedente, nel quadro della Good Neighbor Policy, iniziano a essere costruite le prime collezioni di arte latinoamericana. Nel 1939, il Dipartimento di Stato organizza la Conferenza delle relazioni interamericane nel campo dell’arte, con lo scopo di definire le strategie di scambio artistico e culturale tra Nord e Sudamerica. Il Museum of Modern Art è ovviamente protagonista e dopo l’organizzazione delle mostre Twenty Centuries of Mexican Art (1940) e Brazil Builds (1943), sembra intenzionato a allestire qualcosa di simile sull’arte colombiana. Tra il 1943 e il 1944, infatti, alcuni contatti tra Teresa Cuervo, Gustavo Santos e Luis de Zulueta e personalità legate al MoMA — Porter A. McCray, Lincoln Kirstein e Nelson A. Rockefeller — sembrano rendere l’evento possibile11, sebbene poi non se ne faccia più nulla. Tuttavia, l’interesse per la Colombia rimane. Nel 1943, Gregorio Hernández è negli Stati Uniti grazie al MoMA, che vorrebbe contare sulla sua collaborazione per formare una collezione di arte popolare colombiana12. L’esito di questo tentativo non è chiaro, mentre è certa una sua collaborazione all’organizzazione della mostra The Latin-American Collection of the Museum of Modern Art curata da Kirstein nel 1943, la quale raccoglie opere di artisti da tutto il continente, con ampia presenza di messicani e brasiliani, e che include i colombiani Luis Alberto Acuña, Gonzalo Ariza, Erwin Kraus e Alfonso Ramírez Fajardo, ma che esclude Ignacio Gómez e Pedro Nel Gómez, perché considerati ancora troppo accademici e forse anche per la volontà di Kirstein di concentrare l’attenzione sulla pittura di paesaggio ed evitare temi politicamente e socialmente caldi come l’indigenismo: “The Colombian landscape is so impressive that it is heartening to find young painters, separated from both Paris and Mexico, investigating it rather than imitating a bohemian academy or supporting neo-Indian exoticism” (Kirestein, 1943, p. 45).

Così, mentre alcuni artisti della generazione dei Bachué ricevono la propria consacrazione nel tempio nordamericano dell’arte moderna, una nuova leva inizia a emergere. Con la fine del decennio, infatti, si registra finalmente quella rottura piena rispetto ai modelli accademici, anche in senso astrattista, che avvicina un giovane gruppo di pittori e scultori alle tendenze dell’arte internazionale (Rubiano Caballero, 1982). È solo in questo momento, infatti, che emerge una prima generazione di artisti in grado di operare quella rottura in senso astrattista che ancora manca. Quest’arte trova adesso in New York il suo centro e perde nuovamente quella dimensione figurativa che il cosiddetto rappel a l’ordre aveva fatto recuperare a gran parte della produzione europea dopo la Prima guerra mondiale. Così, l’eco dell’abstract expressionism dagli Stati Uniti arriva in Colombia, soprattutto grazie al tedesco Guillermo Wiedemann. Nel frattempo, emergono altre personalità, sospese tra astrattismo e figurativismo: i pittori Alejandro Obregón ed Enrique Grau e gli scultori Edgar Negret ed Eduardo Ramírez Villamizar, nonché, poco dopo, la figura oggi più acclamata: Fernando Botero. Sono questi i “magnifici” sei artisti che la critica argentina Marta Traba selezionerà nei primi anni Sessanta come rappresentativi del nuovo cammino dell’arte colombiana (Traba e Díaz, 1963). Fautrice di un’arte pienamente integrata nel discorso internazionale come quella dei sei selezionati e in costante polemica con le tendenze nazionaliste dell’arte latinoamericana, la critica attaccherà frontalmente la vecchia generazione impersonata da Acuña, il quale, nel frattempo, con sempre maggior impegno si era dedicato allo studio dell’arte coloniale, succedendo a Teresa Borda alla direzione del Museo de Arte Colonial.

Verso una pratica scientifica del restauro

Intanto, a cavallo tra anni Trenta e Quaranta, in tutto il continente americano una nuova generazione di architetti e studiosi riprende in mano la ricerca sull’architettura del periodo coloniale. Questa volta, però, tali studi non appaiono tanto orientati verso la costruzione di nuovi stili nazionali, come nei primi decenni del Novecento, quanto soprattutto verso l’intervento di restauro sul patrimonio esistente. Il più importante protagonista di questa stagione è l’argentino Mario José Buschiazzo che, dopo aver assunto la cattedra di Storia dell’architettura all’Universidad de Buenos Aires, pubblica una serie di studi monografici su diversi monumenti argentini e alcune delle prime ricerche sull’arte e l’architettura coloniale estese a tutta l’America Latina. In occasione del Congreso Panamericano de Arquitectos di Montevideo del 1940, egli organizza una mostra fotografica accompagnata da un catalogo in cui non mancano esempi colombiani (Buschiazzo, 1940). Poco più tardi, pubblica il volume Estudios de arquitectura colonial hispano americana (Buschiazzo, 1944) e, insieme agli spagnoli Diego Angulo Íñiguez ed Enrique Marco Dorta, dà alle stampe il primo tomo dell’ormai classica Historia del Arte Hispanoamericano edita da Salvat (1945; Gutiérrez et al., 2015). Nel 1946 fonda l’Instituto de Arte Americano e Investigaciones Estéticas, che avrà un ruolo fondamentale nel consolidare gli studi nel campo in tutto il continente e, più avanti, un diretto riflesso in Colombia. Nel frattempo, Buschiazzo è attivo come restauratore, intervenendo in molti dei più significativi edifici coloniali dell’Argentina. Negli stessi anni, anche in altri paesi emergono figure simili di architetti-studiosi, in molti casi anche restauratori: in Uruguay, Juan Giuria; in Bolivia, José de Mesa Figueroa; in Perù, Emilio Harth Terré ed Hectór Velarde Bergmann.

In questo stesso periodo, in Colombia, gli architetti prendono una direzione completamente diversa da quella di tanti artisti e intellettuali. La ricerca di uno “stile nazionale”, nonostante qualche tardivo richiamo13, scompare dall’orizzonte. Con la fondazione nel 1936 della Facoltà di Architettura e Belli Arti dell’Universidad Nacional a Bogotá, gli architetti portano a compimento quel processo di istituzionalizzazione della disciplina che aveva registrato poco prima un’altra tappa fondamentale con la nascita della Sociedad Colombiana de Arquitectos. Il passaggio della Escuela Nacional de Bellas Artes sotto Architettura produce conflitti che portano in poco tempo a una scissione che, al di là dei dissidi istituzionali, racconta divergenze più profonde: con la nomina di Ignacio Gómez Jaramillo alla direzione della Scuola, l’indirizzo americanista della sua generazione si consolida definitivamente. Ma così, mentre nella Escuela Nacional de Bellas Artes si elaborano e diffondono queste tematiche, nella Facoltà di Architettura gli sforzi maggiori sono rivolti all’assimilazione dei modernismi internazionali. In altre parole, mentre pittori e scultori continuano a perseguire un’arte “propria”, la preoccupazione principale degli architetti è chiaramente orientata alla ricezione delle innovazioni tecniche ed estetiche provenienti dall’Europa. Cammini divergenti segnalati nei termini di una modernità incompleta, che porterebbe gli architetti ad allontanarsi dalla politica e della lotta sociale, ma anche dall’arte e dalla filosofia (Viviescas, 1991, pp. 373-374). Di fatto, gli anni a cavallo tra Quaranta e Cinquanta segnano il consolidamento di una pratica architettonica coerentemente modernista, come segnalato dalla storiografia (Arango, 1989; Samper Martínez, 2000). Al tempo stesso, in questo momento, con la pubblicazione della rivista Proa e della monografia Arquitectura en Colombia di Jorge Arango e Carlos Martínez (1951), si costruisce per la prima volta un discorso di sintesi tra modernità e tradizione, attraverso il riconoscimento di una serie di caratteri e valori comuni tanto alla tradizione architettonica coloniale quanto alla produzione modernista contemporanea (Mondragón López, 2008; Mondragón López e Lanuza Rilling, 2008).

In termini generali, si può dire che dentro alla Facoltà di Architettura, dove operano molti dei protagonisti di questa stagione, da Carlos Martínez a Gabriel Serrano, si guarda al futuro di una città che cresce e deve essere modernizzata –si vedano i noti progetti di ricostruzione del centro di Bogotá di Martínez e dei suoi studenti pubblicati nei primi numeri di Proa– più che a un passato da preservare. Non senza eccezioni. Come emerge da una lettera del 1937 di un rappresentante degli studenti, infatti, le edificazioni di epoca coloniale iniziano a essere oggetto di ricerca in uno specifico corso:

En lo que respecta a Arquitectura existe una asignatura llamada Investigación del Arte Colonial, que es de lo más interesante, si se tiene en cuenta que, debido ya a los materiales de que se disponen, al medio o bien a la tradición, se construye en el estilo que hemos llamado así, con más o menos alteraciones. Ahora bien; esta arquitectura no se puede estudiar sino visitando los monumentos típicos que se conservan en Cartagena, Popayán, Leyva y otras ciudades del país, puesto que no existe tratado alguno sobre la materia o profesor que se haya dedicado a estudiarlo. (Archivo Central e Histórico de la Universidad Nacional de Colombia, 1937a)

Nel 1941 si tiene anche la mostra Fotografías de arquitectura colonial organizzata da M.A. Rodríguez, di cui dà notizia la rivista delle Facoltà di Architettura e Ingegneria dell’Universidad Nacional di Bogotá (Rodríguez, 1941), che in questi anni presenta anche diverse copertine con immagini di chiese e altri edifici coloniali. E proprio nella medesima Facoltà, l’insegnamento della Storia dell’architettura non appare marginale nel piano di studi. Il pensum del 1937 prevede due corsi di Storia dell’architettura di tre ore settimanali al secondo e terzo anno, mentre più spazio è dedicato alla Teoria dell’architettura (Archivo Central e Histórico de la Universidad Nacional de Colombia, 1937b). Titolare di entrambi i corsi è in questo momento Karl Brunner, che segue un programma che spazia dall’architettura greca al Rinascimento, nel primo corso, e dal XVI secolo al 1930, nel secondo (República de Colombia e Universidad Nacional, 1941). Negli anni seguenti, il peso della disciplina sembra aumentare: il pensum del 1946 prevede tre corsi annuali di tre ore settimanali, più uno di Storia dell’arte al quarto anno, oltre a un’Introduzione alla Storia dell’arte nell’anno preparatorio (Archivo Central e Histórico de la Universidad Nacional de Colombia, 1946). Con la riforma di Eduardo Mejía del 1948, invece, lo spazio della Storia dell’architettura si riduce, passando a due corsi annuali di due ore settimanali, cui si aggiunge un corso di Storia delle arti plastiche (Archivo Central e Histórico de la Universidad Nacional de Colombia, 1948a; Niño Murcia, 1987). Tra i docenti responsabili dell’insegnamento si distinguono gli italiani Vicente Nasi e Angiolo Mazzoni14. Passando agli anni Cinquanta, invece, l’insegnamento della Storia dell’architettura prende una piega differente con l’emergere di nuove influenze storiografiche e nuovi centri d’insegnamento che si distinguono anche per le proprie posizioni nell’ambito della ricerca storica. Mentre tra i docenti dell’Universidad Nacional figurano Hans Rother e lo spagnolo Luis Borobio Navarro, all’Universidad de los Andes Rogelio Salmona, tornato da Parigi nel 1958, inizia a dettare un corso di Storia delle forme costruite, fortemente influenzato dalle idee dello storico francese Pierre Francastel e dal pensiero zeviano15 (Mejía Vallejo e Merí de la Maza, 2018; Albornoz Rugels, 2019).

Quanto invece al restauro, non solamente in questo momento non sono presenti corsi, ma i fondamenti teorici stessi di questa disciplina appaiono quasi sconosciuti. E non solo nelle università. Risulta infatti quasi impossibile trovare in questo periodo scritti sul tema. Tra le poche eccezioni, si distingue un articolo di Juan Crisóstomo García (1936, p. 68) che, dopo aver lodato coloro che resuscitano lo stile coloniale, ricorda come sia anche opportuno preservare i resti di tale epoca secondo un principio preciso: “Reparar sin destruír, es lema actual de las naciones cultas”. Parole rare, perché anche all’interno di testi che trattano della produzione artistica e architettonica del passato non si pone mai il problema delle strategie per la sua conservazione. Solo negli anni Quaranta inoltrati, con l’arrivo di Mazzoni nella Facoltà sono formulate alcune proposte per avviare corsi nel campo del restauro (Niglio, 2011, 2016; Niglio e Ramírez Nieto, 2016). L’italiano, che si incorpora come docente di Urbanistica e di Composizione architettonica, elabora infatti una delle prime proposte di formalizzazione della disciplina del restauro, sottolineando, tra le altre cose, la necessità di studiare l’architettura coloniale. In una lettera indirizzata al rettore, Mazzoni sollecita esplicitamente la creazione di corsi di Restauro e Archeologia:

El estudio, conservación, defensa y restauración de las obras antiguas históricas, histórico-artísticas y artísticas es la base esencial para la formación espiritual de los arquitectos. Dos materias de enseñanza se necesitan:

  1. Arqueología.

  2. Técnica de la restauración de las obras artísticas.

Es indispensable — en la égida de la Universidad Nacional de Colombia — como el Museo de Arte Colonial, la creación de las Superintendencias para la defensa y restauración de los monumentos y obras de arte (Arquitectura, Pintura y Escultura) y que tienen significado y valor histórico. (Archivo Central e Histórico de la Universidad Nacional de Colombia, 1948b; citato in Niglio e Ramírez, 2016)16

Il messaggio, però, non sembra essere recepito. Nella Facoltà di Ingegneria mineraria (Facultad de Minas) dell’Universidad Nacional a Medellín, invece, più o meno in contemporanea anche sotto la spinta di Pedro Nel Gómez e della sua ricerca artistica sui temi dell’indigenismo, lo studio dell’arte e dell’architettura americana entra nel corso di Architettura, così come entrano nel dibattito i temi del patrimonio storico-artistico nazionale, la sua tutela e persino la pratica del restauro. Nel piano di studi della Facoltà, infatti, è introdotto un corso di Archeologia americana ed europea. In questo modo, come l’aggettivo “americano” suggerisce, lo studio delle civiltà precolombiane entra nel campo dell’architettura. Ciò rappresenta un unicum in Colombia e riflette l’importanza che a Medellín è data a questi temi. In un articolo di Pórtico, lo stesso Pedro Nel Gómez (1948) sottolinea il fondamento precolombiano della scultura nazionale contemporanea: “En el colosal “nido andino”, nuestra gloriosa zona arqueológica, quedó para siempre planteado, para Colombia y para la América tropical, todo el fondo de nuestra escultura”. Il riferimento è al sito archeologico di San Agustín, che in questi anni gode di una certa visibilità nelle riviste della Facoltà di Medellín. Sul numero 9 di Pórtico (1951) sono pubblicati due articoli dedicati rispettivamente alla ceramica e alla scultura di questa civiltà; su DYNA, un docente presenta il resoconto di un suo viaggio al sito (Girard, 1953). Da questa attenzione verso il patrimonio storico-artistico e naturale del paese, deriva forse anche la pubblicazione di altri due articoli significativi. Nel primo, dedicato proprio alla tutela del patrimonio, l’autore lamenta la demolizione di numerosi edifici storici in tutto il paese, i cattivi restauri ricostruttivi e gli abbellimenti in stile neocoloniale, chiedendo che si studi la legislazione adottata in Francia e Italia e si rediga un inventario del patrimonio nazionale come avviene in questi paesi (Pérez Restrepo, 1949). L’anno dopo, sulla stessa rivista, compare un testo di Anatole France (1950) di alcuni decenni prima, nel quale lo scrittore si scaglia contro Viollet-le-Duc e i suoi metodi, concludendo con le note parole di Adolphe Napoléon Didron sul minimo intervento. Di fatto, questi testi rappresentano i primi, e a lungo unici, scritti con riferimenti precisi ad autori e teorie del restauro pubblicati in Colombia.

Le basi per una formalizzazione dell’insegnamento nel campo del restauro e una professionalizzazione di una pratica rimasta fino a questo momento a livello amatoriale, però, ancora non si vedono. Così, dagli anni Trenta ai Cinquanta si susseguono interventi di restauro che Germán Téllez (1982, pp. 404-407) definisce amatoriali e dannosi: da quelli di Luis Alberto Acuña a quelli di José María González Concha a Cartagena de Indias, fino ai lavori di Angiolo Mazzoni a Bogotá. In quest’ultimo caso, però, non si può non sottolineare il ben diverso grado di consapevolezza teorica che sostiene i progetti dell’italiano. Per la chiesa di San Francisco sulla Carrera 7., ad esempio, Mazzoni vorrebbe tra le altre cose mettere in pratica i principi elaborati da Gustavo Giovannoni dell’isolamento del monumento e di dialogo tra il vecchio e il nuovo (Niglio, 2016). Altri interventi importanti dell’italiano sono quelli per le chiese francescane della Veracruz e de La Tercera, e, a livello urbano, i progetti per la Plaza de Bolívar e la Plazoleta del Colegio de San Bartolomé de los Jesuitas, nelle quali ancora una volta Mazzoni propone l’analisi del valore monumentale degli edifici come guida per la selezione e l’armonizzazione dello spazio pubblico. Da un’intervista, rimasta a lungo inedita, data da Mazzoni a un quotidiano colombiano negli anni Cinquanta (Niglio, 2016), emerge con chiarezza la sua visione sul patrimonio: dall’idea che non solamente i monumenti, ma anche gli edifici minori e particolari spazi urbani meritino di essere preservati, alla relazione tra patrimonio e identità nazionale, al dialogo tra antico e moderno.

Con la fine degli anni Cinquanta, inoltre, a livello legislativo si registra il salto di qualità finora mancante con l’approvazione della Legge 163 del 1959, che così recita:

Artículo 1º.- Declárense patrimonio histórico y artístico nacional los monumentos, tumbas prehispánicas y demás objetos, ya sean obra de la naturaleza o de la actividad humana, que tengan interés especial para el estudio de las civilizaciones y culturas pasadas, de la historia o del arte, o para las investigaciones paleontológicas, y que se hayan conservado sobre la superficie o en el subsuelo nacional.

Los Gobernadores de los Departamentos velarán por el estricto cumplimiento de esta Ley.

Artículo 2º.- En desarrollo de lo acordado en la Séptima Conferencia Internacional Americana, reunida en Montevideo en el año de 1933, se consideran como monumentos inmuebles, además de los de origen colonial y prehistórico, los siguientes: a) Los que estén íntimamente vinculados con la lucha por la independencia y con el período inicial de la organización de la República, b) Las obras de la naturaleza de gran interés científico indispensables para el estudio de la flora y la geología

Artículo 4º.- Declárense como monumentos nacionales los sectores antiguos de las ciudades de Tunja, Cartagena, Mompox, Popayán, Guaduas, Pasto y Santa Marta (especialmente la Quinta de San Pedro Alejandrino, y las residencias de reconocida tradición histórica).

Parágrafo. - Para los efectos de la presente Ley se entenderá por sectores antiguos los de las ciudades de Tunja, Cartagena, Mompox, Popayán, Guaduas, Pasto, Santa Marta, Santa Fe de Antioquia, Mariquita, Cartago, Villa de Leyva, Cali, Cerrito y Buga. Las calles, plazas, plazoletas, murallas, inmuebles, incluidos casas y construcciones históricas, en los ejidos, inmuebles, etc., incluidos en el perímetro que tenían estas poblaciones durante los siglos XVI, XVII y XVIII.

Artículo 5º.- Declárese como Monumento Nacional por su importancia científica, la Sierra de la Macarena, ubicada en la región oriental de Colombia. (Congreso de Colombia, 1960)

Questa fondamentale legge è da interpretare come risultato di una crescente attenzione verso il patrimonio storico-artistico in un momento in cui, però, i danni perpetrati in tre decenni di sfrenata modernizzazione delle città appaiono ormai in larga misura irrimediabili. In ogni caso, è proprio a partire dalla fine degli anni Cinquanta che gli architetti iniziano ad abbracciare con convinzione l’attività di tutela e conservazione del patrimonio. Un anno prima dell’approvazione della Legge 163, ad esempio, in occasione del VI Congreso Nacional de Arquitectos, si fanno una serie di raccomandazioni riferite a quel testo ancora in discussione nella Camera legislativa, anche cercando di porre uno studio di José María González Concha sul restauro come guida operativa per la pratica (Sociedad Colombiana de Arquitectos, 1958). E che una nuova consapevolezza inizi a investire alcuni architetti in questo momento appare evidente. Il risultato di questo processo sarà la fondazione di una pratica del restauro finalmente aggiornata e professionale, anche attraverso una più chiara formalizzazione della disciplina e del suo insegnamento. In questa direzione, a Bogotá un ruolo chiave è giocato da Carlos Arbeláez Camacho, e, in misura minore, da Carlos Martínez, mentre anche in altre città il campo disciplinare appare in movimento e si registrano importanti progressi.

Da una parte, la fondazione dell’Instituto de Investigaciones Estéticas della Pontificia Universidad Javeriana nel 1963, riflesso della visita di Mario J. Buschiazzo, segna un momento chiave. La nascita della rivista Apuntes nel 1967 fornisce finalmente uno spazio editoriale che accoglie studi puntuali su edifici storici, presenta interventi di restauro e garantisce visibilità a un dibattito teorico che era rimasto piuttosto limitato, non aiutando certo a superare quel dilettantismo a cui si faceva riferimento. Da questo punto di vista, la prima vera disamina dell’evoluzione storica del pensiero sul restauro e delle posizioni disciplinari in campo è pubblicata da Alfonso Borrero Cabal (1969), filosofo e matematico gesuita, decano della Facoltà di Architettura della Pontificia Universidad Javeriana negli anni Sessanta. Nel frattempo, grazie al lavoro di Arbeláez nell’Instituto de Investigaciones Estéticas, la Facoltà si mostra molto attiva nella ricerca, ed estratti dei suoi studi, generalmente portati avanti insieme agli studenti del quarto e quinto anno, iniziano a essere pubblicati su Proa (nn. 163, 164, 166 e 167, 1964). Nel 1964, Arbeláez e l’Instituto ricevono la Menzione d’Onore per progetti di ricerca, analisi o critica storica-architettonica della II Bienal Colombiana de Arquitectura. Lo stesso anno, presso il Museo de Arte Colonial, è anche allestita una mostra sull’architettura coloniale, sempre curata dall’Instituto. Quest’ultimo svolge così un ruolo fondamentale nella pratica, mentre a livello formativo solo nei primi anni Ottanta comparirà all’interno della Facoltà di Architettura e Design il primo Master .Maestría) in restauro17 , sebbene già dal 1976 Jaime Salcedo avesse cercato di avviare tale corso (Mendoza Laverde, 2001, p. 107). Dall’altra parte, anche l’attività di Germán Téllez nell’Instituto de Investigaciones Estéticas dell’Universidad de los Andes segue linee parallele e anch’essa trova spazio sulla rivista Proa (n. 165, 1964; nn. 171 e 175, 1965)18 . La rinnovata attenzione da parte di Proaper l’architettura dell’epoca coloniale non appare per nulla casuale se si pensa che nel 1968 Carlos Martínez pubblica a Buenos Aires il volume Santafé de Bogotá e, più tardi, un altro testo dal titolo Reseña urbanística sobre la fundación de Santafé en el nuevo reino de Granada (1973). In tal modo, negli anni Settanta si registrano una serie di interventi informati da una maggior conoscenza storica dei manufatti in questione e da una più salda consapevolezza teorica. Dietro al restauro del complesso monumentale di Monguí, operato dagli architetti dell’Instituto de Investigaciones Estéticas della Pontificia Universidad Javeriana, ad esempio, si legge chiaramente la consapevolezza delle diverse possibilità che si aprono dinnanzi al progettista, dalla “conservazione passiva” al “restauro monumentale”, effettivamente scelto come approccio:

Ciertamente, el retorno a la forma primitiva del monumento no es un fin que deba buscar la restauración monumental; así lo postula la Carta de Venecia y ha sido aceptado ya universalmente. Pero, en este caso, las modificaciones que nuestro siglo introdujo en la estructura y espacio del templo crearon problemas que se mantendrán mientras permanezcan esas modificaciones. Las consideraciones técnicas, sin duda, resuelven la discusión a favor de restaurar la techumbre mudéjar. (Salcedo Salcedo, 1976, p. 11)

E se gli anni Sessanta segnano per Bogotá una vera e propria svolta, anche in altre città la situazione inizia a cambiare. E ciò accade in maniera autonoma rispetto a quanto avviene nella capitale. A Cali, grazie ai finanziamenti della Rockefeller Foundation all’Universidad del Valle, alcuni architetti hanno la possibilità di seguire il corso di Restauro della Scuola di Perfezionamento per lo Studio e il Restauro dei Monumenti dell’Università degli studi di Roma, diretta da Guglielmo de Angelis d’Ossat. Nel 1963, José Luis Giraldo Jaramillo, da poco laureatosi all’Universidad del Valle e ivi istruttore di Storia dell’arte, si trasferisce a Roma. L’esperienza in Italia gli permette l’acquisizione di un notevole bagaglio di conoscenze tecniche e una maggiore comprensione dell’importanza della ricerca come mezzo per rendere effettiva la collaborazione interdisciplinare tra i dipartimenti di Storia e di Composizione della Facoltà. Poco dopo, anche un altro architetto della stessa università riceve una borsa della Rockefeller Foundation e si reca a Roma. In questo modo, grazie a una combinazione di fattori, la Facoltà di Architettura dell’Universidad del Valle si costituisce dalla metà degli anni Sessanta come un importante centro di ricerca sui temi della conservazione del patrimonio architettonico coloniale. In una nota interna della Rockefeller Foundation, si sottolinea l’importanza del lavoro portato avanti da Giraldo nell’ambito della protezione del centro storico di Cali:

In the Architecture School a brief presentation was done of the La Merced restoration project under the direction of former RF scholar, Dr. Giraldo Jaramillo. The School of Architecture is assuming a position of leadership in all of South America with respect to direction of preservation of colonial architectural features in major cities. The Merced project has already succeeded in the sense that Cali officials have been persuaded to give up a planned street-widening which would have destroyed some of the finest colonial architecture in the city. Use of this restored area for a library, museum, and recreational facilities is being planned. There is little doubt that this is one of the more interesting current programs of the Faculty of Architecture. No doubt that the training invested in Dr. Giraldo has been worthwhile. KW still feels however that this type of program should be supported locally rather than by RF founds, since its major thrust is perhaps less critical than some of the food, population, and public health problems in which the University is involved (Rockefeller Archive Center, 1968).

In particolare, il riferimento è alla ricerca che Giraldo intraprende tra il 1968 e il 1970 sul centro storico della città, portato avanti all’interno del Laboratorio di urbanistica, dando così a questo corso una connotazione assolutamente unica rispetto a quanto avviene normalmente (J. L. Giraldo Jaramillo, comunicación personal, Cali, 17 agosto 2016). Questo lavoro aiuta a convincere le autorità municipali a non abbattere alcuni isolati coloniali e sarà più tardi alla base del secondo restauro19 del complesso de La Merced, con rifunzionalizzazione del convento in museo archeologico. Alcuni anni più tardi, un altro memorandum interno alla Rockefeller Foundation evidenzia il “first-rate job” che Giraldo e altri stanno compiendo con i loro programmi di ricerca sulla città (Rockefeller Archive Center, 1970).

Nonostante questi progressi, però, continuano a essere realizzati un gran numero di restauri che seguono principi ancora lontani da quelli formalizzati nella Carta di Venezia del 1964. Il primo intervento sulla chiesa de La Merced a Cali, eseguito da Enrique Sinisterra O’Byrne (2011a) e Diego Salcedo proprio nel 1964, con la totale ricostruzione della cappella collocata sul fianco della chiesa verso la strada ne è un esempio chiaro. Questo e altri interventi, come quello sulla casa Cural di Guacarí, Valle del Cauca, ben riflettono lo stato della pratica di questi anni e sembrano esprimere una visione del restauro come una disciplina ancora guidata innanzitutto da valori estetici, cosa che lo stesso autore del progetto dichiara apertamente (Sinisterra O’Byrne, 2011b).

È certo comunque che proprio a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, in Colombia si registra quella maturazione nel campo disciplinare del restauro che porta finalmente alla formalizzazione degli studi nel settore e a interventi più maturi. Questo interesse per la conservazione, non solo dei monumenti, ma anche della città storica più in generale, si riflette nei contenuti del Congreso Panamericano de Arquitectos del 1968, organizzato per la prima volta a Bogotá dopo alcuni tentativi falliti negli anni precedenti. Il tema generale della “Renovación urbana” è infatti declinato in una serie di sotto-temi, tra i quali risalta quello della “Conservación de áreas urbanas”. Nelle conclusioni è da notare il richiamo al valore di preservazione dell’autenticità e dell’integrazione della città storica con quella contemporanea dal punto di vista sociale, economica e di circolazione, pianificando la riabilitazione delle aree da proteggere in accordo con i principi della Carta di Venezia (punto 2). Al punto 4 così si dichiara:

Debe atacarse a nivel de la práctica profesional y de la enseñanza, el problema de cómo hacer arquitectura contemporánea dentro y en la inmediata vecindad de las zonas históricas. Sobre todo debe superarse la etapa historicista es decir: las alusiones arquitectónicas al pasado.

Si richiama, inoltre, la necessità di non musealizzare le aree storiche, di riabilitarle favorendo l’innesto di usi adeguati dal punto di vista economico e sociale (punto 5) e di estendere i criteri di tutela non solamente ai monumenti, ma anche alle zone di valore documentale, culturale e paesaggistico, in una logica di prevenzione più che di salvaguardia di ciò che già appare in avanzata fase di deterioramento (punto 6; S. A., 1968, pp. 28-31).

Quanto di tutto questo si sia avverato nei decenni successivi è difficile a dirsi: una passeggiata per il centro storico di Cartagena de Indias o Villa de Leyva potrebbe bastare per comprendere la misura del fallimento di tali propositi, caduti sotto i colpi dell’inarrestabile forza del turismo di massa. Al riguardo, appare interessante citare un articolo di Germán Téllez (1966), in cui discute la conservazione di Cartagena de Indias con riferimento alle indicazioni della Carta di Venezia. Oltre a richiamare la necessità della cura permanente nei confronti dei monumenti e della loro possibile rifunzionalizzazione con usi compatibili –domandosi giustamente se l’uso commerciale sia “decoroso”–, l’autore mette in chiaro il bisogno di tutelare dalla speculazione, di grande o piccola scala che sia, non solamente i singoli monumenti, quanto l’intero tessuto urbano. In ultimo, dopo aver considerato critica la possibilità di inserire edifici moderni nel centro, a causa di una possibile cattiva qualità architettonica, Téllez ribadisce l’inutilità della proibizione di elevare edifici in altezza al di fuori della città storica, ricordando che questi già esistono e che città come Parigi o Milano non sono state rovinate nella loro silhouette dalla costruzione della Tour Eiffel o del grattacielo Pirelli. Ma soprattutto, Téllez critica fortemente gli interventi eseguiti in città, ricordando il carattere eccezionale del restauro, come recita la Carta di Venezia, e segnalando con forza la perdita di autenticità della fabbrica e il carattere ricostruttivo di queste operazioni.

Conclusioni

Il sottotitolo di questo lavoro manifesta esplicitamente la consapevolezza del suo carattere non conclusivo. Il suo obiettivo, infatti, è innanzitutto quello di fornire una panoramica cronologicamente ampia e disciplinariamente trasversale per la costruzione di una storia della pratica del restauro in Colombia. Da questo racconto appare evidente come, per raggiungere tale scopo, sia necessario uscire dai confini della storiografia disciplinare dell’architettura ed estendere la ricerca ai campi della storia dell’arte, della letteratura, dell’antropologia e dell’archeologia, fino chiaramente alla storia politica, esattamente come fatto da Alberto Escovar Wilson-White e Miguel Darío Cárdenas Angarita (2018) nel loro Historia del patrimonio en Colombia, pubblicata mentre questo testo era in elaborazione. Allo stesso tempo, appare imprescindibile travalicare un altro tipo di confini: quelli politico-geografici. La problematica, infatti, deve essere inquadrata a una scala perlomeno continentale, mostrando l’importanza che network e piattaforme di incontro transnazionali giocano in tutto il periodo in questione.

D’altra parte, il carattere provvisorio di questa ricerca vuole essere uno stimolo per lo sviluppo di nuovi studi in almeno due direzioni. La prima vede la necessità di individuare e indagare nel dettaglio singoli casi di intervento di restauro nel paese tra gli anni Quaranta e Sessanta, al fine di individuare le prassi, i metodi, le tecniche e i riferimenti teorici alla base di ogni progetto, seguendo il lavoro già iniziato da Rubén Hernández Molina e Olimpia Niglio (2011, 2012). La seconda direzione è quella della ricerca nelle facoltà di Architettura delle università colombiane, per approfondire tempi e modi in cui l’insegnamento del restauro si formalizza e consolida.

In ultimo, e questa sì può essere letta come una conclusione, sebbene di carattere più generale rispetto agli obiettivi di questo testo e di critica rispetto a molta della storiografia sull’architettura relativa alla Colombia, è importante ribadire come anche il tema del restauro dimostri la necessità di non leggere più le relazioni tra Bogotá e le altre città del paese in termini di centro-periferia. È ormai necessario, infatti, iniziare ad apprezzare gli sviluppi che in ogni centro si registrano come risultati di processi non indipendenti –perché il costante dialogo con la capitale non può essere negato–, ma relativamente autonomi, come il caso di Cali ben dimostra.

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Nota

* Articolo di ricerca

1 Dieci anni più tardi, invece, saranno proprio i liberali colombiani a essere accusati di distruggere le vestigia coloniali, come si vedrà più avanti.

2 Incontri a cadenza irregolare che a partire dal 1920 riuniscono architetti di tutta l’America.

3 Rivista della Sociedad Colombiana de Ingenieros fondata nel 1887.

4 Rivista edita dalla Sociedad de Mejoras Públicas di Medellín dal 1911.

5 Lo stesso testo, probabilmente pubblicato inizialmente sul quotidiano Vanguardia Liberal di Bucaramanga, è riproposto con il titolo “Arquitectura nacional” su Progreso e, quasi dieci anni dopo, sul Registro Municipal.

6 Alcuni dei quali — Ignacio Gómez, Ramón Barba, Sergio Trujillo, Pedro Nel Gómez, Gonzalo Ariza, Carlos Reyes, Josefina Albarracín, José Domingo Rodríguez e Luis Alberto Acuña — saranno riuniti in una mostra curata dal critico Jorge Zalamea nel 1941.

7 Una fotografia del Padiglione è pubblicata in Cromos, 1168 (1939).

8 Archivo Central e Histórico de la Universidad Nacional de Colombia, Bogotá (da adesso ACHUNC), Fondo Historia Laboral.

9 Nel frattempo, in Europa è firmata nel 1931 la Carta del Restauro di Atene.

10 Dal nome del pittore russo Nicholas Roerich, è firmato nel 1935 a Washington, DC, dai paesi aderenti all’Unione Panamericana con l’obiettivo di proteggere i monumenti storici in caso di guerra.

11 Lettera de Zulueta (1943) a McCray, P. A. e Lettera Cuervo Borda (1944) a McCray, P. A.

12 Lettera Kirstein (1942) a Brickel H (attaché culturale dell’ambasciata USA a Bogotá), Nello stesso periodo, anche Luis Alberto Acuña cerca di ottenere una borsa Guggenheim, cosa che poi gli riuscirà solo nel 1946.

13 Si pensi alle polemiche di Ignacio Piñeros Suárez –ingegnere e socio fondatore della Sociedad Colombiana de Arquitectos– contro le tendenze foranee presenti nella Facoltà di Architettura e la sua tardiva proposta di un linguaggio basato su forme ornamentali autoctone, che tra il 1939 e il 1940 si trovano espresse in diversi suoi articoli pubblicati sugli Anales de Ingeniería. In ogni caso, ancora per tutta la prima parte degli anni Quaranta, si registrano numerosi progetti in forme neocoloniali, dalla chiesa Principal di Buenaventura di José María González Concha del 1941 alle tante scuole rurali costruite dal Ministerio de Obras Públicas.

14 I documenti appaiono contraddittori: la scheda del personale docente (ACHUNC, fondo Historia Laboral) non conferma che Mazzoni abbia avuto la cattedra di Storia, mentre dal Registro de la asistencia del personal docente, relativo al settembre del 1949, risulta titolare del corso (Archivo Central e Histórico de la Universidad Nacional de Colombia, 1949). Il programma proposto dall’italiano appare di grande interesse: diviso in 106 punti, spazia dall’arte preistorica fino al presente, con circa un quarto dei contenuti che coinvolgono autori e temi relazionati con il Movimento moderno, sebbene mai citato come tale, e le sue origini. Una lezione riguarda il Crystal Palace, la Tour Eiffel e le opere in acciaio; un’altra, l’architettura dei ponti e la sua influenza in quella contemporanea. Nel mezzo: la Catalogna; il floreale; l’eclettismo; la Wagnerschule; Olbrich e Hoffman. Poi si passa alla scuola tedesca fino a Hitler; Mies van der Rohe e Hoffman; la scuola olandese; di nuovo Mies, Mendelsohn, Gropius e Fahrenk Wright; la Svizzera; la Svezia; la Finlandia; futurismo, razionalismo e funzionalismo; il ritorno al neoclassicismo in Germania; l’Italia contemporanea e il contrasto tra diverse scuole e l’influenza di Piacentini; l’architettura delle grandi strutture di cemento armato e acciaio; Le Corbusier; gli Stati Uniti prima e dopo l’arrivo dei grandi architetti tedeschi; il Brasile. In questo elenco si legge il tentativo di storicizzare il presente, in un percorso che arriva all’immediato dopoguerra, sottolineando l’importanza dei movimenti migratori e soffermandosi su geografie diverse, come Brasile e Scandinavia, che proprio in questo periodo assumono uno spazio centrale nella storiografia del Movimento moderno. In questa direzione, Mazzoni potrebbe essere visto come uno dei primi nel paese ad aprire il capitolo dell’architettura scandinava –lontana dal mondo delle riviste colombiane ancora per un certo tempo– e a inserire nell’insegnamento in modo tutto sommato precoce l’esperienza brasiliana. Anche gli ultimi punti del programma manifestano una certa originalità: storia dei giardini; storia del teatro, del cinema, della scenografia e della tecnica scenica; storia dei mobili e della decorazione.

15 L’importanza dello storico italiano è e sarà fondamentale nel paese. Silvia Arango, ad esempio, ne ricorda l’influenza nella modalità di lettura dello spazio nell’indagine storiografica di Carlos Arbeláez. E non è difficile incontrare in diversi testi –dagli scritti di Jaime Salcedo Salcedo a quelli di Jaime Coronel Arroyo– riferimenti alle idee e ai metodi di Zevi.

16 ACHUNC, R/SG-FA, 1948, f. 54. Citato in Niglio e Ramírez, 2016.

17 I corsi previsti nel piano di studi del 1984-85 sono: Introduzione al restauro dei monumenti; Storia del movimento conservazionista; Apprezzamento estetico dell’architettura; Storia dell’architettura ispano-americana; Materiali e metodi I e II; Metodologia della ricerca; Fotografia nel restauro; Paleografia; Legislazione conservazionista in Colombia; Progetto nella conservazione dei monumenti; Conservazione di complessi urbani.

18 Quanto all’Universidad Nacional, invece, bisognerà aspettare la fine degli anni Settanta perché sia istituito un centro di ricerca simile.

19 Il primo era stato compiuto già nel 1964 da Enrique Sinisterra O’Byrne e Diego Salcedo Salcedo.

Author notes

a Autore corrispondente. E-mail: giaime.botti@nottingham.edu.cn

Additional information

Come citare questo articolo: Botti, G. (2020). Arte e architettura, patrimonio e identità. Appunti per una storia del restauro in Colombia (1920-1970). Apuntes, 33. https://doi.org/10.11144/Javeriana.apu33.aapi

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