Diritto, Sacra Scrittura e nuovo umanesimo*

Maria Maddalena Mazzia

Diritto, Sacra Scrittura e nuovo umanesimo*

Universitas Canonica, vol. 36, 2019

Pontificia Universidad Javeriana

Maria Maddalena Mazzia

Istituto Superiore di Scienze Religiose “Giovanni Paolo II”, Italia


Received: 15 August 2019

Accepted: 13 September 2019

Published: 15 October 2019

Sommario: Ha un senso parlare oggi di diritto e Sacra Scrittura? E cercare di capire come può questo rapporto aiutare l’uomo moderno nel suo anelito verso la verità, nel suo rapporto con Dio?

Il diritto non può prescindere dalla Sacra Scrittura che, in quanto Parola di Dio, va sempre tenuta presente, sia da parte dei giuristi che dei politici cattolici, nella gestione del bene comune.

Il diritto nella Chiesa trova il suo fondamento nella Sacra Scrittura, è un dono di Dio attraverso la Rivelazione.

Sacra Scrittura e Diritto nella Chiesa perseguono un unico fine, la salvezza delle anime, attraverso un’unica legge, la Legge dell’Amore.

Nel realizzarsi della legge dell’Amore l’uomo vive un nuovo umanesimo.

Parole chiave:diritto, epikeia, equità, Sacra Scrittura, salvezza, umanesimo.



Corro per la via dei tuoi comandamenti,
perché hai dilatato il mio cuore.
Indicami, Signore, la via dei tuoi decreti
e la seguirò sino alla fine.
Dammi intelligenza, perché io osservi la tua legge
e la custodisca con tutto il cuore.
Dirigimi sul sentiero dei tuoi comandi,
perché in esso è la mia gioia.

Source: Salmo 119, 32-35

Ha un senso parlare oggi di diritto e Sacra Scrittura? E cercare di capire come può questo rapporto aiutare l’uomo moderno nel suo anelito verso la verità, nel suo rapporto con Dio? Riteniamo che una riflessione in tal senso sia necessaria, in un periodo storico complesso e “liquido” come quello che stiamo attraversando.

Ponendoci all’interno della Chiesa e del suo Mistero, cerchiamo di riflettere sul collegamento necessario fra diritto e Sacra Scrittura e sulla necessità di entrambi per dare concreta attuazione ad un nuovo umanesimo nella Chiesa e nella società.

Ricordiamo subito che alla presentazione del nuovo Codice alla Curia Romana, agli studiosi e ai rappresentanti di tutto il mondo culturale, il 3 febbraio 1983, il Sommo Pontefice San Giovanni Paolo II1 poneva, a conclusione del suo discorso, come un ideale triangolo, quasi ad indicare il posto del diritto nella Chiesa. Affermava espressamente il Sommo Pontefice:

In alto, c’è la Sacra Scrittura; da un lato, gli Atti del Concilio Vaticano II e, dall’altro lato, il nuovo Codice Canonico. E per risalire ordinatamente, coerentemente da questi due Libri, elaborati dalla Chiesa del secolo XX, fino a quel supremo ed indeclinabile vertice, bisognerà passare lungo i lati di un tale triangolo senza negligenze ed omissioni, rispettando i necessari raccordi: tutto il Magistero - intendo dire - dei precedenti Concili Ecumenici ed anche (omesse, naturalmente, le norme caduche ed abrogate) quel patrimonio di sapienza giuridica, che alla Chiesa appartiene. (Pontificia Commissio Codici Iuris Canonici Recognoscendo, 1983, p. 39)

Volendo trattare del rapporto tra diritto, Sacra Scrittura e nuovo umanesimo ci è sembrato opportuno introdurre la riflessione con queste parole di San Giovanni Paolo II, che indicano con chiarezza la giusta relazione esistente.

Partendo dal patto fra Dio e il Popolo d’Israele nell’Antico Testamento, notiamo come tutto si sia configurato in precise norme cultuali e legislative.

Da Dio procede la Legge e il nesso fra patto e legge diventa inscindibile per la piena realizzazione dell’umanità (Pontificia Commissio Codici Iuris Canonici Recognoscendo, 1983, p. 33).

Se per un giurista è fondamentale la conoscenza della storia del diritto, come nessuno dubita, l’attenzione ai dati contenuti nella Bibbia dovrebbe essere altrettanto fondamentale, non solo per un canonista, in quanto non si può contestare che

la dottrina cristiana, nonché, almeno per il tramite di questa, anche quella propria del popolo di Israele, hanno esercitato una influenza determinante sulla civiltà di tutti i popoli, specialmente, ma non esclusivamente, di quelli di razza bianca, in ogni campo dello spirito; ma il campo in cui essa è stata forse più efficace praticamente è proprio quello del diritto, anche per i nessi che questo presenta con la morale, perché non vi è dubbio che i nostri istituti sarebbero stati molto diversi, se le concezioni che essi traducono non avessero trovato inspirazione nella dottrina cristiana, e non avessero prima trasformato sensibilmente il diritto romano e poi influito su tutti gli ordinamenti derivati più o meno direttamente da questo. (Jaeger, 1960, p. 9)

In ogni società i rapporti fra gli uomini sono stati regolati da norme giuridiche.

Ciò che contraddistingue gli ordinamenti giuridici è il fine che si mira a soddisfare, fine che condiziona anche l’interpretazione e l’applicazione della legge e che non prescinde dalla cultura e dalla storia della stessa società. Si pensi alla diversità culturale e legislativa che può esserci fra popoli che sono contrari ad ogni discriminazione razziale e viceversa popoli che la ammettono. Di qui la necessità, nello studio del diritto, di conoscere la storia di un popolo per capire il perché di una determinata norma.

La Sacra Scrittura non solo ci fornisce il testo di norme, la loro interpretazione e applicazione, ma ci da anche la funzione del diritto, destinato a regolare la vita del popolo d’Israele, ma soprattutto destinato alla salvezza dell’uomo.

Il diritto assume un ruolo determinante nell’opera della Redenzione, a cominciare da Israele, per estendersi ad ogni uomo.

Fin dalla creazione Dio fa dono all’uomo della libertà, dono prezioso che l’uomo purtroppo rovina. Nonostante tutto Dio attira l’uomo a sé e vuole che egli liberamente vada a Lui.

Il cammino verso la salvezza è un cammino lungo, che vede il Figlio di Dio farsi uomo per ottenerci, appunto, la salvezza.

Per questo lungo cammino, costellato da vicende di ogni genere e durante il quale la rivelazione si fa via via più chiara, si rende necessario un complesso di norme che regolino i rapporti fra le persone, che soddisfino alcune esigenze fondamentali all’origine: la fecondità del popolo, la purezza della dottrina, la conoscenza delle verità di fede da parte di tutti, una profonda e reale solidarietà e il raggiungimento di un grado sempre più elevato di perfezione, degno di uomini che consideravano Dio come Padre (Jaeger, 1960, pp. 45-46).

Caposaldo del diritto nell’Antico Testamento sono i dieci comandamenti, che potremmo dire rappresentano una sorta di costituzione alla quale attenersi nell’interpretazione di tutte le altre norme.

La conoscenza della Legge era, per il popolo d’Israele, fondamentale, tant’è che veniva insegnata a tutti, fin da giovane età.

L’ordinamento di Israele era caratterizzato dalla dimensione religiosa ed è sopravvissuto anche alla diaspora.

I comandamenti vengono considerati dono di Dio Padre che, nonostante le infedeltà, mantiene fede al Suo patto d’amore.

Ecco quindi lo stretto rapporto fra patto e legge. Rapporto che, iniziato con Mosè e i dieci comandamenti, continua nel nuovo popolo di Dio con Gesù, Supremo Legislatore, e la nuova Legge dell’amore.

Gesù trasmette la Sua potestà agli Apostoli affinché questo rapporto fra patto e legge prosegua nella comunità cristiana, con la forza dello Spirito Santo.

La Legge dell’amore è condizionata all’osservanza dei precetti, che ancora oggi noi pratichiamo così come la Chiesa ha proposto.

In Gv 15,10 (“Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore”) e nei versetti seguenti

Gesù insiste sul legame che si stabilisce tra l’amore (o legge dell’amore) e l’obbedienza (o legge da obbedire). Perché nella misura in cui l’amore conduce a sacrificare il proprio punto di vista personale per affidarsi all’altro, non per paura, per calcolo o per rinuncia, ma per conformarsi al massimo alla sua volontà e ai suoi desideri, si può dire che esso si realizza in una obbedienza e una sottomissione vicendevole. Fino a che non conosce l’unione affettuosa delle volontà, l’amore è imperfetto: soltanto la sottomissione vicendevole è il criterio di un amore divenuto adulto. Che è quanto dire che solo l’obbedienza alla Parola incarnata nella “legge ecclesiastica” attua la legge dell’amore. (Ardito, 2008, pp. 23-24)

Il nesso fra diritto e Sacra Scrittura tocca anche la stessa organizzazione giuridica della Chiesa, voluta da Dio stesso.

La Chiesa corpo di Cristo, compagine organizzata, con diversità di membra e di funzioni, ha in sé come connaturale il diritto, che serve la causa della giustizia. Si afferma:

E’ stato lo stesso Gesù Cristo a stabilire il suo Regno in questo mondo come un corpo sociale e visibile, con una intrinseca dimensione di giustizia, e a conferire all’ordinamento della Chiesa, mediante il Diritto divino positivo, il suo nucleo più specifico ed essenziale. (Cenalmor e Miras, 2005, p. 39)

Il diritto nella Chiesa è estremamente necessario.

Poiché infatti è costituita come una compagine sociale e visibile, essa ha bisogno di norme: sia perché la sua struttura gerarchica ed organica sia visibile; sia perché l’esercizio delle funzioni a lei divinamente affidate, specialmente quella della sacra potestà e dell’amministrazione dei Sacramenti, possa essere adeguatamente organizzato; sia perché le scambievoli relazioni dei fedeli possano essere regolate secondo giustizia, basata sulla carità, garantiti e ben definiti i diritti dei singoli; sia, finalmente, perché le iniziative comuni, intraprese per una vita cristiana sempre più perfetta, attraverso le leggi canoniche vengano sostenute, rafforzate e promosse. (Giovanni Paolo II, 1983)

Il diritto ha rapporto con la Sacra Scrittura per quanto riguarda la retta interpretazione, nel senso di cercare la volontà di Dio nelle leggi: la ragion d’essere del diritto è la verità rivelata, che ritroviamo nella Scrittura.

La Sacra Scrittura costituisce la Norma normans della Parola di Dio, che viene messa per scritto all’interno dell’evento della Tradizione (traditio constitutiva), sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, e che diventa norma della tradizione ecclesiastica (traditio interpretativa et explicativa), cioè, suprema fidei regula. (Albornoz, 2008, p. 30)

Dall’equilibrio fra legge e Sacra Scrittura nasce la dottrina cristiana che, afferma Papa Francesco 2 (2015c) “non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo”.

E Gesù Cristo è il centro da cui partire per un nuovo vero umanesimo.

Caratteristiche dell’ordinamento d’Israele

L’ordinamento d’Israele, così come lo ritroviamo nella Sacra Scrittura, non corrisponde a quello che generalmente si intende per Stato. La religione e la volontà divina ne costituivano i cardini, tanto che anche dopo la dispersione ha continuato ad esistere.3

Il popolo era convinto che le norme provenivano da Dio e dalla loro osservanza derivava la permanenza nella comunità, al punto da considerare come massima sanzione proprio l’espulsione dalla comunità stessa.

L’interpretazione delle norme divine, per la loro esatta applicazione e le eventuali sanzioni, poteva essere fatta solo da esperti in scienze sacre. Ricordiamo, in primo luogo, l’autorità del capofamiglia, il patriarca, che ha potere in campo civile e penale, ed ha anche il dovere di trasmettere ai figli la Legge.

L’importanza del ruolo del capofamiglia si riscontra nell’attenzione dedicata dalle leggi alla successione, laddove si stabiliscono, cioè, i diritti di primogenitura:

Se un uomo avrà due mogli, l’una amata e l’altra odiata, e tanto l’amata quanto l’odiata gli avranno procreato figli, se il primogenito è il figlio dell’odiata, quando dividerà tra i suoi figli i beni che possiede, non potrà dare il diritto di primogenito al figlio dell’amata, preferendolo al figlio dell’odiata, che è il primogenito. Riconoscerà invece come primogenito il figlio dell’odiata, dandogli il doppio di quello che possiede, poiché costui è la primizia del suo vigore e a lui appartiene il diritto di primogenitura. (Dt 21, 15-17)

Dopo i capifamiglia c’erano le figure di membri più elevati, i giudici, chiamati a dirimere le controversie fra famiglie diverse. Costoro si mantenevano in contatto fra loro e formavano gli allievi, in maniera tale che potessero a loro volta giudicare i casi più gravi.

Con l’allargarsi degli insediamenti e la difficoltà di rivolgersi ad un giudice, per via delle distanze, ci si rivolgeva agli anziani, cioè i capi delle famiglie, custodi delle tradizioni d’Israele. Essi si riunivano a formare l’organo direttivo della città ed erano i depositari della Legge.

La collegialità è la caratteristica di questi organi ed in genere dell’ordinamento d’Israele. Israele non riconosce che un solo sovrano, Dio, anche nei periodi in cui figure di re esercitano l’autorità. Israele si fida di Dio:

La confessione di fede di Israele si sviluppa come racconto dei benefici di Dio, del suo agire per liberare e guidare il popolo (cfr. Dt 26,5-11), racconto che il popolo trasmette di generazione in generazione. La luce di Dio brilla per Israele attraverso la memoria dei fatti operati dal Signore, ricordati e confessati nel culto, trasmessi dai genitori ai figli. Impariamo così che la luce portata dalla fede è legata al racconto concreto della vita, al ricordo grato dei benefici di Dio e al compiersi progressivo delle sue promesse. (Francesco, 2013a, n. 12)

Il vero sovrano d’Israele è Dio, unico legislatore. Gli anziani, i sacerdoti, il sinedrio, i re, i profeti sono tutti organi che servono a richiamare il popolo all’osservanza della legge di Dio, esseri che si annullano per aderire al disegno di Dio, alla Sua volontà.

Mentre la necessità di sopravvivere e trasmettere la Legge imponeva una indipendenza spirituale e politica, conquistata sul campo di battaglia a spese di popoli stranieri, le leggi d’Israele imponevano di trattare con rispetto lo straniero di passaggio o che comunque si accostasse con spirito pacifico.

Così leggiamo:

Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. (Es 22, 20)

Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra, non lo opprimerete. Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. (Lv 19, 33-34)

Se uno straniero che dimora da voi, o chiunque abiterà in mezzo a voi, di generazione in generazione, offrirà un sacrificio consumato dal fuoco, profumo gradito al Signore, farà come fate voi. Vi sarà una sola legge per l’assemblea, sia per voi sia per lo straniero che dimora in mezzo a voi, una legge perenne, di generazione in generazione; come siete voi, così sarà lo straniero davanti al Signore. Ci sarà una stessa legge e una stessa regola per voi e per lo straniero che dimora presso di voi. (Nm 15, 14-16)

(…) perché il Signore, vostro Dio, è il Dio degli dei, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto. […] Quando, facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo. Sarà per il forestiero, per l’orfano e la vedova, perché il Signore, tuo Dio, ti benedica in ogni lavoro delle tue mani. Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornare a ripassare i rami. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto, perciò ti comando di fare questo. (Dt 10, 17-19 e 24, 19-22)

Anche nei confronti degli altri esseri viventi la legislazione biblica richiama l’uomo alla sua responsabilità:

Se vedi l’asino di tuo fratello o il suo bue caduto nella strada, tu non fingerai di non averli scorti, ma insieme con lui li farai rialzare. […] Quando, cammin facendo, troverai sopra un albero o per terra un nido d’uccelli con uccellini o uova e la madre che sta per covare gli uccellini o le uova, non prenderai la madre sui figli. (Dt 22, 4.6)

Pertanto si afferma che:

Mentre possiamo fare un uso responsabile delle cose, siamo chiamati a riconoscere che gli altri esseri viventi hanno un valore proprio di fronte a Dio e “con la loro semplice esistenza lo benedicono e gli rendono gloria” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2416), perché il Signore gioisce nelle sue opere (cfr. Sal 104,31). Proprio per la sua dignità unica e per essere dotato di intelligenza, l’essere umano è chiamato a rispettare il creato con le sue leggi interne, poiché “il Signore ha fondato la terra con sapienza” (Pr 3,19). (Francesco, 2015b, n. 69)

E, se il male si manifesta fin dalle origini, Dio dà all’uomo una via di salvezza.

Anche se “la malvagità degli uomini era grande sulla terra” (Gen 6,5) e Dio “si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra” (Gen 6,6), tuttavia, attraverso Noè, che si conservava ancora integro e giusto, Dio ha deciso di aprire una via di salvezza. Basta un uomo buono perché ci sia speranza! (Francesco, 2015b, n. 71)

Diritto privato

La famiglia

Continuando ad esaminare il diritto nell’Antico Testamento osserviamo che fondamento della società è la famiglia, complesso economico autosufficiente (Jaeger, 1960, p. 112).

Sono visti con sfavore i matrimoni misti, perché intaccano la purezza della razza. Ecco perché il capofamiglia si adopera per trovare una moglie della stessa razza ai propri figli, anche se in territorio distante. Si vedano i casi di Isacco, Giacobbe e Tobia.

Si imponeva il matrimonio della vedova con un fratello o un parente stretto del marito sia per la purezza della stirpe, sia per motivi economici.

La monogamia è la regola, pur essendo tollerata la poligamia, anche al fine di permettere al popolo di Dio di diventare numeroso e sopravvivere in mezzo ai popoli stranieri.

La donna israelita è rispettata:

Colui che percuote suo padre o sua madre, sarà messo a morte. (Es 21,17)

Chiunque maledica suo padre o sua madre dovrà essere messo a morte; ha maledetto suo padre o sua madre: il suo sangue ricadrà su di lui. (Lv 20,9)

Ognuno di voi rispetti sua madre e suo padre. (Lv 19,3)

Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre né di sua madre e, benché l’abbiano castigato, non dà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita, e diranno agli anziani “Questo nostro figlio è testardo e ribelle; non vuole obbedire alla nostra voce, è un ingordo e un ubriacone”. Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà. Così estirperai da te il male, e tutto Israele lo saprà e avrà timore. (Dt 21, 18-21)

La legge tutela in generale la donna, anche se, per garantire la purezza della stirpe ed evitare la turbatio sanguinis, vengono punite severamente le adultere, così come le fanciulle fidanzate e le vedove che rimangono incinte (Jaeger, 1960, p. 116).

E’ ammesso il ripudio:

Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei come marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa. (Dt 24,1)

Il ripudio, in seguito, sarà censurato da Cristo:

Nel testo di Mt 19,1-9 – la discussione tra Gesù e i farisei sul divorzio – troviamo una norma di comportamento, una halakhaha (dal verbo hlk, camminare) di Gesù. In questo caso rifacendosi a Gn 1,27 e 2,24, Gesù risponde alla domanda formulata sul divorzio e sull’interpretazione da dare al testo di Dt 24,1, tra la scuola più stretta di Shammai e quella di Hillel, più liberale. Egli ricorda che l’indissolubilità appartiene all’ambito normativo creazionale, di diritto naturale: affermazione che in bocca a Gesù acquista una rilevanza particolare. (Albornoz, 2008, p. 34)

Era obbligatoria la coabitazione dei coniugi nella casa del marito.

Tutte queste regole, insieme a quelle riguardanti l’adozione (del figlio della concubina del marito o, nel caso del levirato, quando il primo figlio nato dal matrimonio della vedova con il cognato viene considerato figlio del defunto marito, Dt 25,5-10), hanno come fine la salvaguardia e la stabilità della famiglia, della stirpe e l’incremento del popolo. Infatti:

La coppia che ama e genera la vita è la vera “scultura” vivente (non quella di pietra o d’oro che il Decalogo proibisce), capace di manifestare il Dio creatore e salvatore. […] La capacità di generare della coppia umana è la via attraverso la quale si sviluppa la storia della salvezza. […] Il Dio Trinità è comunione d’amore, e la famiglia è il suo riflesso d’amore. (Francesco, 2016, n. 11)

I servi

I servi in Israele vengono trattati come persone con ruoli di fiducia (I Cronache 2,34-35), partecipano alle funzioni religiose e osservano il riposo del sabato.

A tal proposito si ricorda l’incarico dato da Abramo al servo, in relazione al matrimonio di Isacco:

Allora Abramo disse al suo servo, il più anziano della sua casa, che aveva potere su tutti i suoi beni: “Metti la mano sotto la mia coscia e ti farò giurare per il Signore, Dio del cielo e Dio della terra, che non prenderai per mio figlio una moglie tra le figlie dei Cananei, in mezzo ai quali abito, ma che andrai nella mia terra, tra la mia parentela, a scegliere una moglie per mio figlio Isacco”. (Gn 24,2-4)

Si veda anche I Cr 2,34-35: “Sesan non ebbe figli, ma solo figlie; egli aveva uno schiavo egiziano chiamato Iarca. Sesan diede in moglie allo schiavo Iarca una figlia che gli partorì Attai”.

Il servo deve essere rispettato e non maltrattato fisicamente: “Quando un uomo colpisce con il bastone il suo schiavo o la sua schiava e gli muore sotto le sue mani, si deve fare vendetta. Ma se sopravvive un giorno o due, non sarà vendicato, perché è suo denaro” (Es 21, 20-21).

Dopo sette anni di servizio il servo ha diritto di andarsene libero, altrimenti può chiedere di essere aggregato definitivamente alla famiglia.

Anno sabbatico e giubileo

Altri due istituti importanti del diritto d’Israele sono l’anno sabbatico e il giubileo.

Durante l’anno sabbatico non si coltivava la terra, i servi erano liberati da ogni vincolo e anche dai debiti:

Per sei anni seminerai la terra e ne raccoglierai il prodotto, ma nel settimo anno non la sfrutterai e la lascerai incolta: ne mangeranno gli indigenti del tuo popolo e ciò che lasceranno sarà consumato dalle bestie selvatiche. Così farai per la tua vigna e per il tuo oliveto. (Es 23, 10-11)

Il Signore parlò a Mosè sul monte Sinai e disse: “Parla agli Israeliti dicendo loro: ‘Quando entrerete nella terra che io vi do, la terra farà il riposo del sabato in onore del Signore: per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti; ma il settimo anno sarà come sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore. Non seminerai il tuo campo, non poterai la tua vigna. Non mieterai quello che nascerà spontaneamente dopo la tua mietitura e non vendemmierai l’uva della vigna che non avrai potata; sarà un anno di completo riposo per la terra. Ciò che la terra produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e all’ospite che si troverà presso di te; anche al tuo bestiame e agli animali che sono nella tua terra servirà di nutrimento quanto essa produrrà’”. (Lv 25, 1-7)

Durante il giubileo vi era la remissione di ogni debito, la liberazione dei servi e la rescissione delle alienazioni di beni immobili, esclusi quelli dei Leviti e le case delle città: “In quest’anno del giubileo ciascuno tornerà nella sua proprietà” (Lv 25,13). “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti” (Lv 25,23).

Da questo si ricava che

la natura del diritto degli israeliti sui campi e sulle case coloniche sembra piuttosto quella di un usufrutto, anzi di un semplice uso, tenuto conto che essi avevano il dovere di consentire ai poveri, alle vedove e agli orfani, nonché ai forestieri, di raccogliere una parte dei frutti – quella eccedente i bisogni dei titolari – e di godere della produzione spontanea dell’annata di riposo dei campi. (Jaeger, 1960, p. 138)

La proprietà della terra, secondo la Bibbia, appartiene a Dio: “Vi diedi una terra che non avevate lavorato, abitate in città che non avete costruito e mangiate i frutti di vigne e oliveti che non avete piantato” (Gs 24, 13), ed Egli l’assegna al suo popolo: “Il Signore ha ordinato al mio signore di dare la terra in eredità agli Israeliti in base alla sorte; il mio signore ha anche ricevuto l’ordine dal Signore di dare l’eredità di Zelofcàd, nostro fratello, alle figlie di lui” (Nm 36,2).

Quello che caratterizza il popolo di Israele e la sua missione è la perfezione morale e la solidarietà. Queste possono essere minate da interessi economici. Si persegue quindi una politica che produca una eguaglianza economica. Si insiste, anche, affinché i beni restino all’interno della cerchia familiare.

Tutta la normativa, inoltre, riguardante i diritti di credito, era ispirata al principio del favor debitoris, dimostrando un grande rispetto dei diritti della personalità. “Ogni uomo, anche il più misero, doveva essere considerato come un fratello e poteva perciò vantare dei diritti veri e propri anche sui beni altrui. Il disegno divino esigeva che gli uomini si venissero preparando sempre meglio all’insegnamento del Salvatore” (Jaeger, 1960, p. 147).

Diritto penale

Anche nel diritto penale Israele presenta elementi importanti per quell’epoca.

Nella Bibbia troviamo la famosa “legge del taglione” che, lungi dal rappresentare una barbarie, serve a segnare limiti alla vendetta, che non può superare il danno subito: “Se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatta all’altro” (Lv 24, 19-20).

Un istituto importante era anche quello che prevedeva la città del rifugio o di asilo (“designerete città che siano per voi città di asilo, dove possa rifugiarsi l’omicida che avrà ucciso qualcuno involontariamente”: Nm 35,10), dove poteva, appunto, rifugiarsi colui che, accusato di omicidio, volesse difendersi o proclamare la sua innocenza, evitando così il linciaggio.

Attraverso questi istituti si affermava il principio della responsabilità personale.

Sono previsti reati contro Dio, contro la purezza dei costumi, l’omicidio e il rapimento di un uomo allo scopo di venderlo come schiavo, ecc.

In definitiva “i beni morali, quali la fede religiosa, la carità fraterna, la castità, i doveri verso Dio, verso se stessi e verso gli altri sono garantiti giuridicamente molto più che in ogni altro ordinamento, antico o moderno” (Jaeger, 1960, p. 166).

Concludendo questo percorso si può notare la stretta connessione fra la fede di Israele e la legge, esplicitata in modo particolare dal Decalogo. Un nuovo umanesimo inizia a delinearsi nel rapporto fra il popolo d’Israele e l’incontro con Dio:

Il Decalogo non è un insieme di precetti negativi, ma di indicazioni concrete per uscire dal deserto dell’ ‘io’ autoreferenziale, chiuso in se stesso, ed entrare in dialogo con Dio, lasciandosi abbracciare dalla sua misericordia per portare la sua misericordia. La fede confessa così l’amore di Dio, origine e sostegno di tutto, si lascia muovere da questo amore per camminare verso la pienezza della comunione con Dio. Il Decalogo appare come il cammino della gratitudine, della risposta di amore, possibile perché, nella fede, ci siamo aperti all’esperienza dell’amore trasformante di Dio per noi. (Francesco, 2013a, n. 46)

Il compimento della Legge in Cristo

Con la venuta di Cristo assistiamo ad un cambiamento di prospettiva.

La Legge antica è buona, Gesù non è venuto per abolirla, ma per portarla a compimento:

Non crediate che io sia venuto ad abolire la legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. (Mt 5,17-18)

Gesù non è venuto ad abolire la Legge antica, in quanto essa è buona e fondata su principi validi, tuttavia estende l’ambito di applicazione, se così vogliamo dire, a tutti gli uomini ai quali giungerà la buona notizia del Vangelo.

La Legge antica non basta più, in quanto siamo giunti alla pienezza dei tempi, con il Figlio di Dio che è venuto per la salvezza di tutti gli uomini che vorranno accoglierlo.

La parte che non accoglierà il Figlio di Dio resterà nell’attesa del Messia

per secoli e secoli; garantirà più efficacemente, come si è notato, proprio anche in virtù del proprio rifiuto di aderire al Cristianesimo, l’antichità e l’autenticità dei libri che predissero e predatarono la discesa del Cristo; contribuirà essa pure ad arricchire il nostro patrimonio spirituale, non soltanto con le conversioni di spiriti particolarmente elevati, la cui anima religiosa si è nutrita di meditazioni sulla Parola di Dio, ma anche con le sue sofferenze, perché ogni persecuzione di cui sarà vittima innocente ci farà sentire quanto siamo lontani, ancor oggi, dal Cristo e indegni di invocare il suo nome. (Jaeger, 1960, p. 196)

Tutte le linee dell’Antico Testamento si raccolgono in Cristo, Egli diventa il “sì” definitivo a tutte le promesse, fondamento del nostro “Amen” finale a Dio (cfr. 2 Cor 1,20). La storia di Gesù è la manifestazione piena dell’affidabilità di Dio. Se Israele ricordava i grandi atti di amore di Dio, che formavano il centro della sua confessione e aprivano lo sguardo della sua fede, adesso la vita di Gesù appare come il luogo dell’intervento definitivo di Dio, la suprema manifestazione del suo amore per noi. Quella che Dio ci rivolge in Gesù non è una parola in più tra tante altre, ma la sua Parola eterna (cfr. Eb 1,1-2). Non c’è nessuna garanzia più grande che Dio possa dare per rassicurarci del suo amore, come ci ricorda san Paolo (cfr. Rm 8,31-39). La fede cristiana è dunque fede nell’Amore pieno, nel suo potere efficace, nella sua capacità di trasformare il mondo e di illuminare il tempo. “Abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi” (1 Gv 4,16). La fede coglie nell’amore di Dio manifestato in Gesù il fondamento su cui poggia la realtà e la sua destinazione ultima. (Francesco, 2013a, n. 16)

In Gesù, che porta a compimento la Legge antica, troviamo i tratti autentici di una nuova umanità. “Gesù è il nostro umanesimo” (Francesco, 2015c).

La prova massima dell’affidabilità dell’amore di Cristo si trova nella sua morte per l’uomo. Se dare la vita per gli amici è la massima prova di amore (cfr. Gv15,13), Gesù ha offerto la sua per tutti, anche per coloro che erano nemici, per trasformare il cuore. (Francesco, 2013a, n. 16)

Dal punto di vista del diritto è chiaro che, estendendosi il campo di applicazione della Legge antica, è necessario superare alcune strutture che avevano la loro ragion d’essere proprio nell’organizzazione di Israele.

Nasce la Chiesa che ha lo stesso Legislatore, ma non è confinata nel territorio di Israele. La Chiesa si pone come istituzione universale, aperta a tutti.

La Chiesa è formata da tutti i battezzati - fedeli, nuovo popolo di Dio, con a capo Cristo.4

Mentre per il popolo di Israele si rendevano necessari alcuni istituti giuridici, consoni alla sua organizzazione territoriale, per la Chiesa universale cambiano i fini che non sono più temporali, ma spirituali.

Cristo ha dato una interpretazione autentica alla Legge antica ed è segno di contraddizione (Mt 10, 34-39):

Coloro che sognano la potenza politica e attendono un Dario o un Alessandro o un Cesare, non lo riconoscono, non sono in grado di riconoscerlo come il Messia; ma Egli sarà riconosciuto e seguito, invece, dai puri di cuore, dai semplici, i quali capiranno il senso vero e profondo del preannuncio, secondo il quale tutti i popoli e i re della terra diverranno allievi e debitori di Israele. Ed egli risolve il conflitto secolare fra le due concezioni della Legge, perfezionando e convalidando con la sua autorità di legislatore e di maestro divino la interpretazione dei profeti e degli ‘ănāwȋm: è la esigenza della perfezione morale che importa, d’ora in poi, mentre l’attuazione delle esigenze politiche non è compito di Dio, ma di Cesare. (Jaeger, 1960, p. 200)

La Chiesa

Vediamo quindi che alle istituzioni del popolo eletto si sostituisce una istituzione aperta a tutti: la Chiesa, che ha esigenze e fini spirituali.

L’uomo è chiamato a vivere, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCE), in società e tutti gli elementi di questa società sussistono nella Chiesa cattolica.5

Oggi il cristiano ha il dovere di osservare le leggi dello Stato di cui fa parte, ma è tenuto ad adempiere la Legge data da Dio ad Israele, portata a compimento da Gesù ed interpretata dal Magistero ecclesiastico. Davanti alla Legge tutti sono fratelli e la Legge dei cristiani è semplice, si tratta della Legge dell’amore, ben esplicitata nel discorso della Montagna (Mt 5, 20-48), attraverso il quale conosciamo quale sarà la giustizia di Dio, ovvero la sua misericordia, perché se chiede a noi tale perfezione, tanto più grande sarà la sua nei nostri confronti.

La Legge, così come indicata nell’Antico Testamento e portata a perfezione da Cristo è il fondamento di tutta la legislazione della Chiesa.

I principi di libertà e uguaglianza affermati fin dalle origini troveranno compimento nelle moderne legislazioni solo dopo molto tempo. Di fatto vengono ancora oggi calpestati, come giornalmente constatiamo.

La Parola di Dio si attua nella legge ecclesiastica non soltanto formalmente, in quanto quest’ultima è fondata sul diritto divino e sul diritto naturale.

Esiste quindi un legame fra diritto e Parola di Dio che si manifesta concretamente in un servizio alla salus animarum e al bene comune. Troviamo nella Chiesa una unione stretta fra Legge dell’amore e legislazione vera e propria.

Proprio grazie alla sua connessione con l’amore (cfr. Gal 5,6), la luce della fede si pone al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace. La fede nasce dall’incontro con l’amore originario di Dio in cui appare il senso e la bontà della nostra vita; questa viene illuminata nella misura in cui entra nel dinamismo aperto da quest’amore, in quanto diventa cioè cammino e pratica verso la pienezza dell’amore. La luce della fede è in grado di valorizzare la ricchezza delle relazioni umane, la loro capacità di mantenersi, di essere affidabili, di arricchire la vita comune. La fede non allontana dal mondo e non risulta estranea all’impegno concreto dei nostri contemporanei. […] La fede fa comprendere l’architettura dei rapporti umani, perché ne coglie il fondamento ultimo e il destino definitivo in Dio, nel suo amore, e così illumina l’arte dell’edificazione, diventando un servizio al bene comune. Sì, la fede è un bene per tutti, è un bene comune, la sua luce non illumina solo l’interno della Chiesa, né serve unicamente a costruire una città eterna nell’aldilà; essa ci aiuta a edificare le nostre società, in modo che camminino verso un futuro di speranza. (Francesco, 2013a, n. 51)

Dalla fede scaturisce la giustizia e la saggezza nel governare, avendo come fondamento l’amore di Dio. La fede illumina la vita concreta dell’uomo e il necessario ordine garantito dal diritto.

Importanza del diritto nella Chiesa

Per capire l’importanza del diritto è fondamentale avere presente la definizione di Chiesa, delineata dal Concilio Vaticano II (1964), nella Costituzione Dogmatica Lumen gentium, cap. I, come sacramento universale di salvezza. Si tratta di una realtà complessa composta di elementi umani e divini.

Occorre anche conoscere cosa si intende per popolo di Dio, realtà che comprende non solo i laici, ma tutti i membri della Chiesa, compresi i ministri ordinati (= chierici) e coloro che professano i consigli evangelici (= i membri degli istituti di vita consacrata).

La conoscenza scientifica del diritto è necessaria per la retta interpretazione delle leggi, ed è importante conoscere l’ordine razionale che le collega, le nozioni, il fine e le cause, con l’origine e l’evoluzione storica dei singoli istituti, in relazione alla natura e al fine della Chiesa, che è, non dimentichiamo, la salus animarum.

Oltre che scienza giuridica, il diritto della Chiesa è scienza sacra, perché nasce da una società che è comunione di vita con Dio, edificata verbo et sacramentis, nuovo popolo di Dio gerarchicamente ordinato al Regno di Dio.

La Costituzione Apostolica di promulgazione del Codice di Diritto Canonico (CIC) inizia con le parole “sacrae disciplinae leges”, indicanti appunto la sacra disciplina della Chiesa cattolica. L’uso dell’aggettivo “sacro” ci fa immediatamente capire che l’ambito in cui ci troviamo è diverso da un ambito meramente civile:

Dopo il Concilio, il Diritto canonico non può non essere in relazione sempre più stretta con la teologia e con le altre scienze sacre, perché è anch’esso una scienza sacra, e non è certo quella “arte pratica” che alcuni vorrebbero, il cui compito sarebbe solo quello di rivestire di formule giuridiche le conclusioni teologiche e pastorali, ad esso pertinenti. (Paolo VI, 1973)

Il Codice riguarda la missione salvifica della Chiesa, così come le è stata affidata dal Fondatore, Gesù Cristo.

Il diritto nella Chiesa, così come lo troviamo espresso nel CIC, è frutto di tutto quanto contenuto nella Rivelazione e nella Tradizione, e trova piena corrispondenza con la dottrina conciliare, che traduce in linguaggio giuridico.

Nel Codice trova attuazione ed emerge la dottrina che vede la Chiesa come Popolo di Dio e comunione, l’autorità come servizio, il popolo di Dio come partecipe della triplice funzione di Cristo, sacerdote, re e profeta. Vengono esposti i diritti e doveri dei fedeli e l’impegno per l’ecumenismo.

Il Codice risulta uno strumento necessario nella vita della Chiesa in quanto la Chiesa è una compagine visibile e sociale ed è quindi importante rendere chiara la sua struttura gerarchica e organica, organizzare l’esercizio della sacra potestà e l’amministrazione dei sacramenti, regolamentare le relazioni fra i fedeli e le varie iniziative per una vita cristiana più perfetta.

Ovviamente si esige l’osservanza delle norme, l’obbligo morale di metterle in pratica in vista della salvezza delle anime, che è la suprema legge della Chiesa (c. 1752).

Prima del Codice attuale numerose erano state nel corso della storia della Chiesa le raccolte di leggi sorte per iniziativa privata, che si erano accumulate senza una vera e propria codificazione. Fu S. Pio X,6 su proposta del giurista Pietro Gasparri, ad iniziare l’opera di codificazione culminata nel Codice del 1917 (Benedetto XV, 1917, pp. 11-456), promulgato da Papa Benedetto XV,7 con la Costituzione Apostolica Providentissima Mater Ecclesia (Benedetto XV, 1917, pp. 5-8, 11-456, 457-510, 511-521).

Il Codice del 1917 trovò universale consenso, ma con il tempo si rese necessario un aggiornamento e si diede inizio al processo di riforma, per il quale la Commissione istituita preferì aspettare la conclusione del Concilio Vaticano II, in maniera da impostare l’opera sui principi e la dottrina derivanti dall’assise conciliare.

Si arrivò così al Codice attualmente in vigore.

La promulgazione avvenne il 25 gennaio 1983, esattamente dopo 24 anni dall’annuncio della revisione fatto dal Papa Giovanni XXIII (Giovanni Paolo II, 1983).

Tutta la storia della Chiesa e lo sviluppo del diritto ci fanno comprendere la necessità di quest’ultimo, in quanto l’uomo è un essere in relazione e come tale non può prescindere, proprio per la sua umanità, dal riferimento all’altro, e di conseguenza dal diritto.

Diritto e società, società e uomo, diritto e uomo: non si può ignorare questa profonda relazione.

Nella Chiesa, proprio per questa profonda relazione, il diritto assume una fondamentale importanza.

Il diritto canonico

è il complesso delle leggi e consuetudini che vigono nella Chiesa e che derivano la loro efficacia giuridica dalla sua autorità sovrana. L’ordinamento canonico è per istituzione divina, originario; per cui l’autorità della Chiesa è indipendente da ogni umana potestà, conforme alla volontà espressa dal Redentore e alla stessa natura delle cose ecclesiastiche. Non era possibile istituire la Chiesa, una ed universale e subordinarla ai singoli stati; né far dipendere l’ordine soprannaturale da quello umano e temporale, senza comprendere implicitamente l’unità e la supernazionalità che sono le caratteristiche essenziali dell’istituto evangelico. La stessa missione spirituale esige invece la subordinazione almeno indiretta d’ogni potere temporale a quello divino che persegue la salvezza delle anime, in conformità alle leggi evangeliche. La Chiesa manifesta questa sua sovranità oltre che con la professione della sua dottrina anche con la millenaria sua autonomia di fatto, che giustifica, anche di fronte alle moderne concezioni positive, la natura originaria dell’ordinamento canonico. (Indelicato, 1953, p. 125)

Papa Francesco (2013b) nell’Esortazione Apostolica “Evangelii gaudium” indica la strada dell’incontro con l’altro, di fronte a forme di spiritualità del benessere senza comunità, senza impegni fraterni:

Una sfida importante è mostrare che la soluzione non consisterà mai nel fuggire da una relazione personale e impegnata con Dio, che al tempo stesso ci impegni con gli altri. Questo è ciò che accade oggi quando i credenti fanno in modo di nascondersi e togliersi dalla vista degli altri, e quando sottilmente scappano da un luogo all’altro, senza creare vincoli profondi e stabili: “Imaginatio locorum et mutatio multos fefellit” (Tommaso da Kempis, De imitatione Christi, Liber I, 9, 5: “Andar sognando luoghi diversi, e passare dall’uno all’altro, è stato per molti un inganno”). E’ un falso rimedio che fa ammalare il cuore e a volte il corpo. E’ necessario aiutare a riconoscere che l’unica via consiste nell’imparare a incontrarsi con gli altri con l’atteggiamento giusto, apprezzandoli e accettandoli come compagni di strada, senza resistenze interiori. Meglio ancora, si tratta di imparare a scoprire Gesù nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste. (p. 1058, n. 91)

L’incontro con l’altro, la vita comunitaria trova la sua regola suprema nella legge dell’amore, che si esplica nel dialogo costruttivo con l’altro a partire dalla positività della giustizia.

Diritto e giustizia non possono essere disgiunti. Il diritto è legato all’idea di giustizia. “Anche nella sua etimologia la parola ‘diritto’ – dal latino directum (‘diritto’, ‘retto’) – è sinonimo di ‘giusto’, ‘giuridico’ e della corrispondente voce latina ius, usata nella Roma classica, dalla quale derivano iustum . iustitia” (Cenalmor e Miras, 2005, p. 32).

Nella Chiesa il diritto ha radici nel fatto stesso che essa rappresenta il Corpo mistico di Cristo, che si manifesta in una società dotata di organi gerarchici. Ciò, pertanto, presuppone

l’esistenza di un ordinamento: perché l’istituzione divina della Gerarchia e i poteri ad essa affidati comportano una serie di relazioni giuridiche, con i corrispondenti diritti e doveri (come quelli che comporta il ministero di Pastori), che richiedono un’adeguata disciplina; e perché lo stesso fatto, che l’unica Chiesa di Cristo sia “costituita e ordinata in questo mondo come società” (LG, 8), esige necessariamente un ordine giuridico, essendo caratteristica propria di qualsiasi società quella di avere un Diritto. (Cenalmor e Miras, 2005, p. 40)

Per un nuovo umanesimo

Dopo quanto esposto risultano attuali le parole dette da Giovanni Paolo II nel promulgare il nuovo CIC, e cioè che la legislazione canonica risulti un mezzo efficace perché la Chiesa possa progredire, conforme allo spirito del Concilio Vaticano II, e si renda sempre più adatta ad assolvere la sua missione di salvezza in questo mondo. Egli si augura la rifioritura nella Chiesa di una rinnovata disciplina, per la salvezza delle anime.8

Giovanni Paolo II ricollega il CIC a tutto il patrimonio di diritto contenuto nei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento e afferma che esso è uno strumento indispensabile sia per l’ordine nella vita individuale e sociale, sia per l’attività stessa della Chiesa (Giovanni Paolo II, 1983).

L’importanza del diritto per la vita della comunità è sintetizzato nella prefazione al Codice: “[…] un sano ordinamento giuridico è senza dubbio necessario perché la comunità ecclesiastica si consolidi, cresca e fiorisca” (CIC, 1984, p. 69).

La Legge per i cristiani rappresenta garanzia di libertà per un’umanità sempre nuova.

A tal proposito è interessante ritornare alle origini, al momento della consegna delle Tavole della Legge. In un certo senso gli Ebrei si sentirono costretti ad accettare la Torà. Essi si posero sotto il monte:

Il monte incombeva su di loro perché Dio lo aveva ribaltato come una tinozza e aveva promesso di renderlo la loro tomba se non avessero accettato la Torà. Il popolo vista la situazione, accettò. Ma, sottolinea rav Achà, questa era la migliore scusa per il futuro: il popolo avrebbe sempre potuto trasgredire sostenendo che aveva accettato per coercizione e non per libera scelta. In questa prima parte vediamo Dio presente, comunicante, incombente. L’uomo è nel massimo della soggezione a Lui, ma questa può essere paradossalmente la fonte della sua massima libertà perché la coercizione non è mai vincolante in un impegno. Ma […] il popolo ha accettato in un altro momento: visto che in un altro testo compare una frase poco comprensibile “compirono ed accettarono” […] il popolo riaccetta la Torà quando Dio è silenzioso, non incombe, è nascosto, non si fa sentire. […] Paradosso dei paradossi, nella massima libertà il popolo sceglie la soggezione a Dio e alla Sua legge: la libera soggezione. Quando Dio urla, l’uomo è obbligatoriamente libero, quando è silenzioso l’uomo si obbliga liberamente. (Carucci Viterbi, 1993, pp. 81-82)

La condizione umana è una condizione di libertà che non può non esprimersi in libertà:

L’uomo è obbligato alla libertà, pur se preferirebbe farne a meno per non accollarsi delle responsabilità. Ognuno deve affrontare il suo essere libero per forza, deve essere per forza responsabile di sé e di molti altri, sia che non ne sappia o non ne voglia sapere il motivo, sia che si senta spinto a ricercarne la ragione in una libertà trascendente che lo coinvolge nel suo piano di libertà creativa. (Martini, 1993, p. 115)

Ne consegue che l’uomo non può non vivere una libertà responsabile.

Certo il diritto ha i suoi limiti, in quanto non sarà la norma giuridica a migliorare l’uomo, se le sue disposizioni d’animo non sono giuste.

Ma nello stesso diritto della Chiesa troviamo un principio importante, ispiratore della legge canonica, che fa comprendere la peculiarità della stessa legge e come essa sia a servizio dell’uomo. Si tratta della aequitas canonica che, posta in relazione con l’epikeia, dovrebbe rappresentare la qualità intrinseca della legge ecclesiastica.

Per equità si intende l’applicazione benigna della legge, cioè il rigore del diritto temperato dalla dolcezza della misericordia (Van Hove, 1930).

L’epikeia viene considerata come un principio di grande importanza:

Il principio dell’epikeia, infatti, è un principio non soltanto morale, ma anche pienamente giuridico: per mezzo di esso constatiamo che la legge in esame non obbliga in un caso particolare. Poiché la legge è universale nella sua proposizione, quindi obbliga tutti nelle circostanze normali, e non può provvedere ai singoli casi particolari, il legislatore stesso prevede che se c’è una difficoltà nell’applicazione della legge, l’obbligatorietà non è pressante. (Ghirlanda, 1990, pp. 443-444)

Questi due principi temperano il rigore del diritto in vista della suprema lex.

Non sarà inutile in questo contesto richiamare al rapporto tra giustizia e misericordia. Non sono due aspetti in contrasto tra di loro, ma due dimensioni di un’unica realtà che si sviluppa progressivamente fino a raggiungere il suo apice nella pienezza dell’amore. La giustizia è un concetto fondamentale per la società civile quando, normalmente, si fa riferimento a un ordine giuridico attraverso il quale si applica la legge. Per giustizia si intende anche che a ciascuno deve essere dato ciò che gli è dovuto. Nella Bibbia, molte volte si fa riferimento alla giustizia divina e a Dio come giudice. La si intende di solito come l’osservanza integrale della Legge e il comportamento di ogni buon israelita conforme ai comandamenti dati da Dio. Questa visione, tuttavia, ha portato non poche volte a cadere nel legalismo, mistificando il senso originario e oscurando il valore profondo che la giustizia possiede. Per superare la prospettiva legalista, bisognerebbe ricordare che nella Sacra Scrittura la giustizia è concepita essenzialmente come un abbandonarsi fiducioso alla volontà di Dio. (Francesco, 2015a, pp. 414-415, n. 20)

Occorre la collaborazione dell’uomo perché il diritto possa renderlo migliore. La legge indica la strada per raggiungere il fine ultimo, che nella Chiesa è la salus animarum, ma ciascun cristiano dovrà impegnarsi con il suo agire morale a raggiungere la salvezza.

Nella Chiesa esiste uno stretto legame fra diritto e morale, che ha al suo centro l’uomo in comunione con tutta la comunità.

Si afferma:

La Parola, infatti, è necessaria affinché gli uomini si avvicinino alla fede della Chiesa – fides ex auditu (Rm 10,17) – e, una volta in essa, si dispongano a seguire in maniera quanto più perfetta il Signore: Cristo affidò la custodia sacra della sua Parola alla Chiesa e, attraverso la missione conferita a Pietro e agli altri Apostoli, e poi ai loro successori, istituì l’ufficio del Magistero, con il fine di garantirne la custodia e diffusione. Da ciò derivano alcuni doveri e diritti tra i fedeli Pastori. Ed inoltre, la Parola stessa ha un carattere giuridico, essendo un bene non solo dotato delle caratteristiche di esteriorità e alterità tipiche della giustizia, bensì anche – come fece notare Mörsdorf – della esigibilità. […]

La Parola di Dio ha così una fondamentale dimensione normativa e giuridica: è vincolante per i fedeli (in modo particolare, quando si tratta di verità di fede divina e cattolica), fa sorgere doveri e diritti, postula determinati uffici e, in generale, un’adeguata disposizione della Chiesa a conservarla e annunciarla fedelmente. (Cenalmor e Miras, 2005, pp. 41-42)

Con i precetti del discorso della Montagna (Mt 5,20-48) si è giunti al massimo della perfezione morale che trova in Dio il massimo della giustizia, che è essenzialmente Amore (Jaeger, 1960, p. 211).

Se Dio si fermasse alla giustizia cesserebbe di essere Dio, sarebbe come tutti gli uomini che invocano il rispetto della legge. La giustizia da sola non basta, e l’esperienza insegna che appellarsi solo ad essa rischia di distruggerla. Per questo Dio va oltre la giustizia con la misericordia e il perdono. Ciò non significa svalutare la giustizia o renderla superflua, al contrario. Chi sbaglia dovrà scontare la pena. Solo che questo non è il fine, ma l’inizio della conversione, perché si sperimenta la tenerezza del perdono. Dio non rifiuta la giustizia. Egli la ingloba e supera in un evento superiore dove si sperimenta l’amore che è a fondamento di una vera giustizia. Dobbiamo prestare molta attenzione a quanto scrive Paolo per non cadere nello stesso errore che l’Apostolo rimproverava ai Giudei suoi contemporanei: “Ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. Ora, il termine della Legge è Cristo, perché la giustizia sia data a chiunque crede” (Rm 10,3-4). Questa giustizia di Dio è la misericordia concessa a tutti come grazia in forza della morte e risurrezione di Gesù Cristo. La Croce di Cristo, dunque, è il giudizio di Dio su tutti noi e sul mondo, perché ci offre la certezza dell’amore e della vita nuova. (Francesco, 2015a, pp. 416-417, n. 21)

Come si vede il diritto non può prescindere dalla Sacra Scrittura che, in quanto Parola di Dio, va sempre tenuta presente sia da parte dei giuristi che dei politici cattolici nella gestione del bene comune.

Il diritto nella Chiesa si basa sul Diritto naturale, cioè la legge naturale, scritta nel cuore di ogni uomo, e sul Diritto divino positivo, cioè annunciato per mezzo della Rivelazione. Pertanto, per vivere la carità pastorale, per servire bene la Chiesa i ministri sacri non possono prescindere dal diritto e dalla giustizia, per evitare il disordine e l’arbitrarietà.

I giuristi, dal canto loro, non possono ignorare la Sacra Scrittura. In modo particolare il canonista “per compiere bene il suo dovere, deve operare anche mediante la ragione illuminata dalla fede, come esige l’accettazione piena del Mistero della Chiesa” (Cenalmor e Miras, 2005, p. 53).

Concludendo:

Per il popolo di Dio e per i cristiani, la legge è un dono di Dio. Egli ha dato al suo Popolo la Legge sul Sinai (cf. Es 31,18; 32,15-16; Dt 9,10; 10,4), la legge del Vangelo è anche il gran dono di Dio, perché Cristo Signore, compiendo in sé la profezia di Geremia richiamata da Paolo (cf. Ger 31,31ss; Eb 8,8-10), ci ha donato la sua legge impressa nel nostro cuore ed ha comandato ai suoi Apostoli e ai suoi successori di istruirci in essa. Dio ci istruisce infatti mediante la legge: “Dammi intelligenza perché io osservi la tua legge e la custodisca con tutto il cuore” (Sal 118,34). Questa legge, che possiamo scrutare alla luce della ragione umana e alla luce della fede, la Chiesa l’ha ricevuta in deposito con la missione di insegnarla e di farla osservare. (Hernández Rodríguez, 2008, p. 136)

Ecco, quindi, che solo mettendo al centro Cristo e la Legge dell’amore l’uomo di oggi può sperare nella realizzazione di un nuovo umanesimo.

Riferimenti

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Van Hove, A. (1930). Commentarium Lovaniense in Codicem Iuris Canonici (vol. 1, t. II). Roma: H. Dessain.

Nota

* Articolo di ricerca

1 Giovanni Paolo II, di Wadowive (Krakow), Karol Wojtyla, 16, 22 ottobre 1978 - 2 aprile 2005.

2 Francesco, di Buenos Aires (Argentina), Jorge Mario Bergoglio, 13, 19.III.2013.

3 “La Bibbia è la narrazione credente della storia di un popolo che, coinvolto nella chiamata divina, vive l’Alleanza nella libertà” (Albornoz, 2008, p. 31).

4 “§1 I fedeli sono coloro che, essendo stati incorporati a Cristo mediante il battesimo, sono costituiti popolo di Dio e perciò, resi partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, sono chiamati ad attuare, secondo la condizione propria di ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo.
§2 Questa Chiesa, costituita e ordinata in questo mondo come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui” (CIC, 1983, libro II, parte I, c. 204, §1 e §2).

5 “1878 Tutti gli uomini sono chiamati al medesimo fine, Dio stesso. Esiste una certa somiglianza tra l’unità delle Persone divine e la fraternità che gli uomini devono instaurare tra loro, nella verità e nella carità [ Cf Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 24]. L’amore del prossimo è inseparabile dall’amore per Dio.
1879 La persona umana ha bisogno della vita sociale. Questa non è per l’uomo qualcosa di aggiunto, ma un’esigenza della sua natura. Attraverso il rapporto con gli altri, la reciprocità dei servizi e il dialogo con i fratelli, l’uomo sviluppa le proprie virtualità, e così risponde alla propria vocazione [Cf ibid., 25].
1880 Una società è un insieme di persone legate in modo organico da un principio di unità che supera ognuna di loro. Assemblea insieme visibile e spirituale, una società dura nel tempo: è erede del passato e prepara l’avvenire. Grazie ad essa, ogni uomo è costituito ‘erede’, riceve dei ‘talenti’ che arricchiscono la sua identità e che sono da far fruttificare [Cf Lc 19,13; Lc 19,15 ]. Giustamente, ciascuno deve dedizione alle comunità di cui fa parte e rispetto alle autorità incaricate del bene comune.
1881 Ogni comunità si definisce in base al proprio fine e conseguentemente obbedisce a regole specifiche; però ‘principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali è e deve essere la persona umana’ [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 25].
1882 Certe società, quali la famiglia e la comunità civica, sono più immediatamente rispondenti alla natura dell’uomo. Sono a lui necessarie. Al fine di favorire la partecipazione del maggior numero possibile di persone alla vita sociale, si deve incoraggiare la creazione di associazioni e di istituzioni d’elezione ‘a scopi economici, culturali, sociali, sportivi, ricreativi, professionali, politici, tanto all’interno delle comunità politiche, quanto sul piano mondiale’ [Giovanni XXIII, Lett. enc. Mater et magistra, 60]. Tale ‘socializzazione’ esprime parimenti la tendenza naturale che spinge gli esseri umani ad associarsi, al fine di conseguire obiettivi che superano le capacità individuali. Essa sviluppa le doti della persona, in particolare, il suo spirito di iniziativa e il suo senso di responsabilità. Concorre a tutelare i suoi diritti [Cf Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 25; Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 12].
1883 La socializzazione presenta anche dei pericoli. Un intervento troppo spinto dello Stato può minacciare la libertà e l’iniziativa personali. La dottrina della Chiesa ha elaborato il principio detto di sussidiarietà. Secondo tale principio, ‘una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune’ [Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 48; cf Pio XI, Lett. enc. Quadragesimo anno].
1884 Dio non ha voluto riservare solo a sé l’esercizio di tutti i poteri. Egli assegna ad ogni creatura le funzioni che essa è in grado di esercitare, secondo le capacità proprie della sua natura. Questo modo di governare deve essere imitato nella vita sociale. Il comportamento di Dio nel governo del mondo, che testimonia un profondissimo rispetto per la libertà umana, dovrebbe ispirare la saggezza di coloro che governano le comunità umane. Costoro devono comportarsi come ministri della Provvidenza divina.
1885 Il principio di sussidiarietà si oppone a tutte le forme di collettivismo. Esso precisa i limiti dell’intervento dello Stato. Mira ad armonizzare i rapporti tra gli individui e le società. Tende ad instaurare un autentico ordine internazionale” (CCE, 1992, parte terza, sezione prima, capitolo primo, articolo 1, I, 1878-1885).

6 S. Pio X, di Riese (Treviso), Giuseppe Sarto, 4, 9 agosto 1903-20 agosto 1914 (fu beatificato il 3 giugno 1951, canonizzato il 29 maggio 1954).

7 Benedetto XV, Genovese, Giacomo della Chiesa, 3, 6 settembre 1914 - 22 gennaio 1922.

8 “[…] è da augurarsi che la nuova legislazione canonica risulti un mezzo efficace perché la Chiesa possa progredire, conforme allo spirito del Vaticano II, e si renda ogni giorno sempre più adatta ad assolvere la sua missione di salvezza in questo mondo. […]. Esorto, quindi, tutti i fedeli a voler osservare le norme proposte con animo sincero e buona volontà, nella speranza che rifiorisca nella Chiesa una rinnovata disciplina; e che, di conseguenza, sia sempre più favorita con l'aiuto della beatissima Vergine Maria, madre della Chiesa, la salvezza delle anime” (Giovanni Paolo II, 1983).

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Come citare questo articolo: Mazzia, M. M. (2019). Diritto, Sacra Scrittura e nuovo umanesimo. Universitas Canónica, 36. https://doi.org/10.11144/Javeriana.ucan36.dssn

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